Quando nel '95 mi sono trovata nella situazione – emotivamente complessa – di ricordare mia mamma mi sono servita di una coralità di interventi; anche qui intreccio tre voci diverse, per raccontarla. Affido al suo curriculum, scritto forse verso il 1985, trovato tra le sue carte, il compito di esporre la parte della vita professionale e dell'impegno politico e sociale:
Laureata in giurisprudenza nel 1941 presso l'Università di Stato di Milano. Iscritta all'Albo Avvocati di Milano dal 1954. Nominata dal Consiglio Superiore della Magistratura vice-pretore onorario, ne ha svolto le funzioni presso la Pretura di Milano dal 1963 al 1967 (è sua la prima sentenza in Italia stesa e sottoscritta da una donna). Durante gli anni della Resistenza aveva partecipato all'attività clandestina del gruppo costituitosi presso l'istituto di Diritto Internazionale dell'Università di Stato, presso il quale era assistente del prof. Roberto Ago. È stata tra i soci fondatori del Centro per la Riforma del Diritto di famiglia di Milano e ha partecipato per anni ai lavori di quel Centro per il nuovo diritto di famiglia. Iscritta al Psi dal 1962, ha dato per anni la sua attività alla Commissione Femminile Socialista. Nominata dal partito a far parte del Collegio dei Probiviri di Milano, ne è stata presidente dal 1968 al 1976. È stata consigliere dell'Ente Comunale di Assistenza di Milano dal 1966 al 1971. È stata Presidente dell'Istituto Marchiondi e Spagliardi di Milano dal 1973 al 1984 (sempre senza emolumento alcuno). Ha partecipato fin dal 1962 alle lotte per l'emancipazione femminile, anche come membro della segreteria provinciale prima, e della segreteria nazionale poi, dell'Unione Donne Italiane. Attualmente è presidente dell'Unione Femminile Nazionale.
È la voce di Anna del Bo Boffino invece, amica e vicina nel lavoro fatto all’Unione Femminile, che può restituire lo «spirito costruttivo» e la complessità nel quale si esprimeva tanto impegno:
Luisa appartiene a quella generazione di donne che ha conosciuto per prima l'emancipazione: negli anni della guerra e del dopoguerra, quelle di noi che avevano studiato al liceo e all'università, che erano entrate a far parte dei gruppi intellettuali e politici antifascisti, erano state accolte come le benvenute. [...]. Eravamo preparate, eravamo brave, e ci sosteneva la passione di un rinnovamento che si manifestava a tutto campo. Accettare le regole maschili del gruppo era obbligatorio. Assumerle era una sorta di promozione. I nostri compagni ci valutavano con il loro metro di qualità. Come donne, ci trattavano con la cavalleria che avevano imparato da bambini. Certe “debolezze” femminili non erano ammesse [...]. Senza rendercene conto, stavamo mutando la nostra identità: c'era molto da imparare, e si buttavano via senza pensarci doti femminili che apparivano solamente ingombranti.[...] A tutte noi era toccato scoprire che l'emancipazione, il valore personale raggiunto e riconosciuto, erano una sorta di esistenza parallela, poco coniugabile con la vocazione familiare. La si metteva da parte, in attesa di tempi migliori, e intanto si sperimentava la condizione femminile nelle sue antiche radici e nelle sue precarie mutazioni. Sulla famiglia c'era molto da riflettere, studiare. Quelle di noi che avevano acquisito gli strumenti culturali per farlo, ci si sono dedicate in zone diverse del sapere. Luisa ha partecipato, allora, ai lavori del Centro per la Riforma del Diritto di famiglia e in particolare alla Commissione per i figli nati fuori dal matrimonio. “Sempre senza emolumento alcuno”, annota lei nella scarna autobiografia. Perché così voleva l'etica della solidarietà socialista e umana della presenza civica, della donazione di sé e del proprio impegno professionale a favore dei “deboli”. Era un modo per legittimare la propria autorevolezza di persona/donna? Così si chiedeva alle emancipate prima che l'ondata femminista denunciasse i costi che le donne stavano ancora pagando per acquisire il merito di cittadinanza in un mondo governato dal potere maschile e da un codice virile. Quella era una strada obbligata, per tutte noi che volevamo (ingenuamente, anche) utilizzare le nostre lauree, i nostri diplomi e tutto quanto avevamo imparato sui libri e nella vita. Ma l'onda lunga del femminismo ci raggiunse, e ci mostrò quanto fossimo divise, tra famiglia e lavoro, tra identità sessuale e identità civile. Il confronto con le figlie, negli anni Settanta, ci rivelò brutalmente a quante autocensure, a quanti edificanti sacrifici ci fossimo sottoposte per ottenere credito, per conquistare un'attendibilità sempre negata. Luisa ottenne un riconoscimento ufficiale per le ore, i mesi, gli anni che aveva dedicato al suo impegno civico: nel giugno 1985 fu insignita Ufficiale all'ordine al merito della Repubblica italiana: un particolare dimenticato della sua esistenza. Sentiva, ormai, che le strade dell'emancipazione femminile corrono troppo distanti dalle vene profonde dell'esistenza femminile. [...] Divenne Consigliere e poi Presidente dell'Unione Femminile Nazionale, dal 1970 fino alla morte. E grazie alla sua attiva amministrazione i conti tornarono in attivo, il vecchio edificio di Porta Nuova fu ripulito, restaurato. Quella casa delle donne ritrovò con Luisa la sua antica vocazione, la sua autonomia, la sua integrità. E si aprì ad altre associazioni femminili milanesi (l'Associazione per gli Studi storici di Elvira Badaracco, la Libera Università delle Donne) che qui trovarono ospitalità e nuove energie per continuare l'opera di approfondimento e diffusione di una cultura femminile e femminista. Luisa seppe individuare, negli ultimi tempi di vita, chi poteva succederle nel difficile governo dell'Unione Femminile Nazionale. Affidò a Annarita Buttafuoco il compito di proseguire, e oggi l'Unione è ricca di attività fiorenti nelle quali si sono inserite le docenti di storia.
Senza rendercene conto, stavamo mutando la nostra identità: c'era molto da imparare, e si buttavano via senza pensarci doti femminili che apparivano solamente ingombranti.[...]
A tutte noi era toccato scoprire che l'emancipazione, il valore personale raggiunto e riconosciuto, erano una sorta di esistenza parallela, poco coniugabile con la vocazione familiare. La si metteva da parte, in attesa di tempi migliori, e intanto si sperimentava la condizione femminile nelle sue antiche radici e nelle sue precarie mutazioni.
Sulla famiglia c'era molto da riflettere, studiare. Quelle di noi che avevano acquisito gli strumenti culturali per farlo, ci si sono dedicate in zone diverse del sapere. Luisa ha partecipato, allora, ai lavori del Centro per la Riforma del Diritto di famiglia e in particolare alla Commissione per i figli nati fuori dal matrimonio.
“Sempre senza emolumento alcuno”, annota lei nella scarna autobiografia. Perché così voleva l'etica della solidarietà socialista e umana della presenza civica, della donazione di sé e del proprio impegno professionale a favore dei “deboli”. Era un modo per legittimare la propria autorevolezza di persona/donna? Così si chiedeva alle emancipate prima che l'ondata femminista denunciasse i costi che le donne stavano ancora pagando per acquisire il merito di cittadinanza in un mondo governato dal potere maschile e da un codice virile.
Quella era una strada obbligata, per tutte noi che volevamo (ingenuamente, anche) utilizzare le nostre lauree, i nostri diplomi e tutto quanto avevamo imparato sui libri e nella vita. Ma l'onda lunga del femminismo ci raggiunse, e ci mostrò quanto fossimo divise, tra famiglia e lavoro, tra identità sessuale e identità civile. Il confronto con le figlie, negli anni Settanta, ci rivelò brutalmente a quante autocensure, a quanti edificanti sacrifici ci fossimo sottoposte per ottenere credito, per conquistare un'attendibilità sempre negata. Luisa ottenne un riconoscimento ufficiale per le ore, i mesi, gli anni che aveva dedicato al suo impegno civico: nel giugno 1985 fu insignita Ufficiale all'ordine al merito della Repubblica italiana: un particolare dimenticato della sua esistenza.
Sentiva, ormai, che le strade dell'emancipazione femminile corrono troppo distanti dalle vene profonde dell'esistenza femminile. [...] Divenne Consigliere e poi Presidente dell'Unione Femminile Nazionale, dal 1970 fino alla morte. E grazie alla sua attiva amministrazione i conti tornarono in attivo, il vecchio edificio di Porta Nuova fu ripulito, restaurato. Quella casa delle donne ritrovò con Luisa la sua antica vocazione, la sua autonomia, la sua integrità. E si aprì ad altre associazioni femminili milanesi (l'Associazione per gli Studi storici di Elvira Badaracco, la Libera Università delle Donne) che qui trovarono ospitalità e nuove energie per continuare l'opera di approfondimento e diffusione di una cultura femminile e femminista.
Luisa seppe individuare, negli ultimi tempi di vita, chi poteva succederle nel difficile governo dell'Unione Femminile Nazionale. Affidò a Annarita Buttafuoco il compito di proseguire, e oggi l'Unione è ricca di attività fiorenti nelle quali si sono inserite le docenti di storia.
Infine, io avevo scelto la fotografia, un piccolo percorso sul tema del ricordo, e una breve nota di riflessione:
Mi sono messa a sfogliare le carte della Mamma - compito che lei mi ha esplicitamente lasciato - e ho capito l'importanza di questo selezionare e discernere, di questo guardare per lei. Mi sono messa al suo tavolo. [...] Documenti, lettere, ricordi: qualcosa da scoprire, qualcosa da concludere, altre cose su cui sorvolare. Uno sguardo, se possibile, attento e lieve, capace di lasciare zone ombrose di intimità.[...] Ho cercato di vedere la Mamma - non la casa - in certi piccoli elementi che raccontano di lei. Nelle cartelle legate con la fettuccia, nella tappezzeria a fiori, gli album numerati, un angolo di pianoforte, la luce che filtra in camera da letto. La distanza emotiva è inversamente proporzionale alla lucidità creativa. Ho pubblicato quella sequenza di immagini convinta che il sentimento che essa esprime sia ampiamente generalizzabile. Chi conosceva la Mamma sa la tenerezza del suo legare le pratiche con la fettuccia rossa: un misto di concreta efficienza, di sapore di cucito, di regalo di Natale. Chi non la conosceva, credo possa avere un senso analogo “della fettuccia”. Un rimpianto: non aver fotografato allo stesso modo lo studio del Papà. Forse allora io non ero in grado di assumermi l'ultimo sguardo. E lui - come ora lei - mi sembrava indimenticabile. Non sapevo che il ricordo si affievolisce.
Unione Femminile Nazionale
LINDA - Libera Università delle Donne
Associazione per gli studi storici Elvira Badaracco
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2017