Nel febbraio del 1986 le cronache giudiziarie sul maxi-processo, iniziato nell’aula bunker di Palermo, registrano la presenza in aula, oltre che dei parenti dei cosiddetti “servitori dello stato”, di due donne, uniche parenti di vittime di mafia che provenissero dagli strati popolari della città e che avevano chiesto la costituzione di parte civile. Erano Vita Rugnetta, madre di Antonino ucciso dalla mafia perché amico del collaboratore di giustizia Totuccio Contorno, e Michela Buscemi, sorella di Salvatore e Rodolfo, il primo ucciso forse perché vendeva sigarette di contrabbando senza il permesso della mafia e il secondo perché aveva cominciato a indagare nel suo quartiere su chi potesse avere ucciso Salvatore. Un collaboratore di giustizia aveva dichiarato che Rodolfo era stato strangolato e, poiché non c’era abbastanza acido per sciogliere il suo corpo, era stato buttato a mare legato a una pietra. La stessa sorte l’aveva subita il cognato Matteo, sequestrato assieme a lui. Rodolfo aveva ventiquattro anni, era sposato con un figlio. La giovane moglie, incinta quando lui era stato sequestrato, dopo aver partorito si lasciò morire per inedia.
Michela Buscemi nasce in una famiglia poverissima, prima di dieci fratelli. Del padre dice che faceva mille mestieri. Sua madre, casalinga, era continuamente incinta. Michela ricorda che nel dopoguerra suo padre, per portare a casa qualcosa da mangiare, era costretto a vendere quel poco che possedevano. Cercò lavoro all’estero, in Belgio, come minatore e la madre, sperando in un ricongiungimento, per racimolare la somma per la partenza vendette la piccola casa dove abitavano. La famiglia, allora c’erano ancora soltanto quattro figli, dovette trasferirsi da un parente, anche lui con una famiglia numerosa, Michela ricorda che fu un’esperienza terribile. L’avventura all’estero del padre finì prestissimo, ma a Palermo si continuava a non trovare lavoro.
Michela riesce a frequentare la scuola elementare malgrado i genitori spesso la obblighino anche con la violenza a rimanere a casa ad aiutare nelle faccende o a badare ai fratelli più piccoli. Più grande frequenterà la media alla scuola serale.
Nel 1960, dopo varie traversie, la famiglia ottiene una casa popolare. Michela trova lavoro in una sartoria dove si confezionano vestiti e cappotti per uomo. Vi era entrata come apprendista a diciott’anni dopo aver frequentato un corso professionale e avere preso un attestato come operaia, addetta a cucire a macchina. Lo stipendio è misero, ma a suo carico ci sono i fratelli per i quali percepisce gli assegni familiari, visto che padre e madre sono disoccupati. Suo padre, contrario a che le donne lavorassero, aveva accettato che lei si impiegasse soltanto per avere gli assegni familiari.
Michela si fidanza con l’attuale marito, dopo aver rotto, a un mese dal matrimonio, un precedente fidanzamento con una persona che non le piaceva, impostale dal padre. Per vincere le resistenze del padre e della suocera accetta la proposta del fidanzato di fare la classica fuitina (fuga). Ma la suocera continuava a mettere discordia tra lei e il fidanzato, perché riteneva che Michela le avesse rubato il figlio il più grande, l’unico che lavorasse in quel periodo. Michela esasperata tenta il suicidio. Nel 1963 riescono a sposarsi. Avranno cinque figli, un maschio e quattro femmine. Ragazzi che hanno studiato, l’ultima è laureata in lingue.
Verso la fine del 1983 i giornali parlano della collaborazione di giustizia di Vincenzo Sinagra, un mafioso arrestato un anno prima, poco dopo la sparizione di Rodolfo. Michela e i suoi familiari già avevano avuto il sospetto che fosse collegato ai mafiosi che avevano ucciso Salvatore e uno dei responsabili dell’uccisione di Rodolfo. Dalle sue dichiarazioni conoscono come è morto Rodolfo e che il suo corpo non potrà essere recuperato. Sinagra sarà uno dei mafiosi imputati nel maxiprocesso iniziato a Palermo il 10 febbraio 1986.
Michela e la madre decidono di costituirsi parte civile, anche perché vengono a sapere di un comitato che ha raccolto, con una sottoscrizione nazionale, fondi per aiutare le parti civili ad affrontare le spese processuali. Ma avvengono due fatti, uno prevedibile, l’altro no e molto grave. Avviene che la madre di Michela all’ultimo momento decide di non presentarsi, convinta dagli altri figli. In un colloquio burrascoso le dice di aver paura che li avrebbero ammazzati tutti, e poiché Michela, per la quale il fratello Rodolfo era stato come un figlio, non torna indietro nella decisione, dichiara alla stampa: "Io non ho mai pensato di costituirmi parte civile. Soltanto mia figlia Michela si è costituita parte civile. Né io, né gli altri ci entriamo". Espone pericolosamente in questo modo Michela, che però continua ad avere l’appoggio del marito e dei suoi figli, mentre rompe ogni relazione con la sua famiglia d’origine.
Non basta. Dopo qualche giorno si viene a sapere che il comitato che aveva lanciato la sottoscrizione decide che la somma raccolta deve andare soltanto ai parenti dei “servitori dello stato”. Così Michela Buscemi, insieme a Vita Rugnetta, oltre a subire l’isolamento del loro ambiente, non mafioso ma succube della mafia, vennero isolate proprio da una parte di quella “società civile” che avrebbe dovuto, al contrario, sostenere il loro impegno. I giornali dettero la notizia e soltanto il Centro Impastato di Palermo e l’Associazione donne siciliane per la lotta alla mafia decisero di aiutarle, sottolineando l’importanza del gesto delle due donne e lanciando a loro volta delle sottoscrizioni. Ad aiutarle furono anche gli avvocati che già avevano accettato la loro difesa e che continuarono gratuitamente ad assisterle. Per cui le somme raccolte furono date a loro (e a un’altra donna, Piera Lo Verso, che in un altro processo aveva accusato i mafiosi che riteneva avessero ucciso il marito e con lui altre sette persone) poiché per la loro decisione avevano subito dei danni economici: nessuno più andava nel bar che Michela aveva aperto con il marito, né nel negozietto di mobili della Rugnetta (né nella macelleria di Piera). Le due associazioni non si sono limitate al contributo economico, ma sono state loro accanto durante le udienze.
Al processo d’appello Michela si ripresenta, malgrado le fossero arrivati avvertimenti e qualche minaccia. Lei racconta:
"Ero con Vita Rugnetta, siamo andate in aula e ho sentito una voce: 'Arreri cca è! (Di nuovo qua è!)'. Il 7 marzo, alle undici di sera, ho ricevuto una telefonata. L’ha presa una delle mie figlie. Era un uomo che chiedeva di me: 'Lei è Buscemi Michela? Si ritiri da parte civile che è meglio per lei. Se no prima di Pasqua avrà un morto in famiglia. Non creda perché suo figlio è partito è in salvo. Si ritiri'. E ha bloccato il telefono. Le mie figlie erano terrorizzate. E allora ho deciso di parlare a mio marito, perché delle prime minacce non gli avevo detto niente. Mio marito si è preoccupato e mi ha detto di ritirarmi. Ne ho parlato con il Centro Impastato, con l’Associazione delle donne contro la mafia e con l’avvocato e ho deciso di ritirarmi. Anche se mi faceva una rabbia ritirarmi… Sottostare al loro volere mi pareva una cosa assurda. Ma non volevo che ci andasse di mezzo la mia famiglia."
Ritirarsi da parte civile, per lei, fu come se i suoi fratelli venissero uccisi un’altra volta; così decise di andare in aula per dichiarare apertamente, davanti alle gabbie dove erano rinchiusi gli imputati, che si ritirava solo perché le minacce ricevute ora riguardavano i suoi figli.
Michela è diventata socia dell’Associazione donne contro la mafia, assumendo nel tempo anche un ruolo direttivo. Da allora ha partecipato innumerevoli volte a iniziative antimafia in Italia e anche all’estero, con una particolare attenzione verso gli studenti. Ha scritto un’autobiografia, Nonostante la paura, e una poesia in cui racconta un suo sogno: A morti da mafia (La morte della mafia).
Referenze iconografiche: Michela Buscemi, foto di Anna Puglisi. Creative Commons Attribution-Share Alike 2.5 Generic
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023