Olga Villa è stata una fra le prime donne a laurearsi in medicina, a Torino. Donna ironica ed ermetica, nel giugno del 1938, a seguito delle leggi razziali, aiuta l’amico Simone Teich, ungherese, ebreo e compagno di studi, a nascondersi in vista della discussione della tesi di laurea che sarebbe dovuta avvenire di lì a pochi giorni; una settimana cruciale per il giovane studente, che se fosse stato trattenuto e non si fosse presentato il giorno della laurea, avrebbe rischiato di non conseguirla più. Sono gli anni in cui Olga segue con passione le teorie anticonformiste del teologo cattolico Ernesto Bonaiuti.
Olga è una donna particolarmente minuta, ha uno sguardo acuto e una sensualità che ammalia e mitiga le imperfezioni del suo viso e della sua figura ossuta. Figlia di un violinista romagnolo trasferitosi a Torino (diverrà secondo violino sotto la guida di Toscanini) e di una colta orfana svizzera tedesca, Olga ha tre sorelle. È una donna che passa inosservata, quando vuole, e questo le permette di divenire prima staffetta della resistenza e, da laureata, medico di una brigata Garibaldi, la componente partigiana legata al partito comunista.
Al termine della guerra Olga si allontana dal partito di Togliatti che pensa non rispecchi i suoi ideali di solidarietà incondizionata. Viene assunta all’Olivetti per assistere i lavoratori nell’avveniristica azienda piemontese. Succede qualcosa, a noi ignoto, che la spinge in Svizzera, a lavorare in un ospedale psichiatrico; ciò che sappiamo è che è attratta dalle teorie dello psicoanalista Alfred Adler, che qui può approfondire. Teorie che però non le corrispondono del tutto e non rispondono al suo bisogno di sollevare concretamente l’umanità dalla sofferenza.
Olga è irrequieta anche nell’ambito della fede, che oscilla fra il credo cattolico e quello protestante, la religione della madre.
Nel 1951 rientra a Torino, animata in quegli anni dall’euforia della ricostruzione dopo le devastazioni della guerra. Fatica a trovare un lavoro che la soddisfi e accetta il ruolo di medico condotto di una zona depressa, quale è quella delle valli valdostane. Quella che vive in quegli anni non è la carriera di un medico di successo, né è costellata da particolari gratificazioni. Olga non sente di appartenere alla società borghese intellettuale torinese del tempo né a quel modo di vivere. Forse ha anche sofferto per amore, non è dato saperlo, sull’argomento è particolarmente riservata. «Mi sento un uovo fuori dal cesto» è ciò che confida agli amici più stretti.
A quasi cinquant’anni, nel 1965, si avvicina, ancora una volta, al credo protestante, e si rivolge all’associazione svizzera Mission Paris che si occupa di smistare medici e infermieri in missioni dimenticate dal mondo civile. Olga si rende disponibile a portare il suo aiuto in un luogo qualsiasi purché di lingua francese, l’unica lingua che conosce oltre all’italiano. Inizialmente la sua candidatura è ostacolata: è una donna, di mezza età, senza alcuna esperienza all’estero né di organizzazione ospedaliera. Ma è determinata, insiste e ottiene un posto nella missione di Mwandi (Livingston), nel sud dello Zambia, al confine con il Borswana: un dispensario fondato nel 1875 da Lutangu Sipola e dal 1884 protetto dalla protestante Mission Paris.
Per raggiungere la missione Olga impiega tre giorni di viaggio, il primo in aereo, e due consecutivi di navigazione su una chiatta lungo il fiume Zambesi. Di questo primo viaggio riferirà il terrore che la attanaglia sin dall’imbarco in aereo; è tutto nuovo e incomprensibile: lei non parla l'inglese e ancora meno l’africano. In compenso intuisce la minaccia dei coccodrilli in agguato lungo le rive e le insidie naturali che l’accompagnano per l’intero viaggio verso Mwandi, dove giunge alla fine dello stesso anno.
Sotto la sua guida, in diciotto anni di attività, il dispensario diventa un ospedale vero e proprio. Da Torino e da Losanna gli amici e le sorelle di Olga si prodigano per rifornirla di ciò che le è necessario per sviluppare la struttura che inizialmente è composta di due sole capanne, quella per il medico e quella - di egual dimensione - per i ricoverati, e che lei svilupperà fino ad arrivare a una serie di strutture capaci di ricoverare stabilmente 120 letti; Olga pone le fondamenta di uno degli ospedali più efficienti della regione, e dà vita al primo, e unico, reparto di maternità di quell’area africana; inoltre riesce a formare alcuni infermieri fra i nativi.
Uno dei pochi obiettivi che riporta con fierezza è proprio la costituzione del reparto maternità e fra i primi compiti che si prefigge c’è quello di insegnare alle africane a non partorire in piedi: in quella posizione è impossibile aiutare loro e i bambini, che spesso cadevano e morivano. Successivamente attrezza questa sua prima unità in modo da garantire un servizio sanitario di livello occidentale.
La vita a Mwandi è scandita dalla povertà, dalla siccità, dalla fame e dalla malaria che Olga contrae quasi subito, ritrovandosi molto fragile.
Organizza l’ospedale applicando la disciplina impartitale dalla madre svizzera, sia che si tratti dell’igiene, della logistica, dell’efficienza: persino l’uniforme degli infermieri, siano essi africani o europei, è rigorosamente quella occidentale, nonostante il caldo. Solo l’allegria dei tessuti delle tende e della biancheria dei letti nei reparti rivela il suo animo infantile apparentemente non contaminato dalla sofferenza che affligge la popolazione.
Fra le tante “insidie” che trova in Zambia vi è la varietà di credi religiosi che faticano a convivere. Olga decide così che all’interno della missione - protestante - ogni mattina si celebri un culto diverso: lei partecipa a ognuno senza ostacolarne alcuno.
Resta difficile immaginare le difficoltà quotidiane che Olga deve fronteggiare, su cui tiene un assoluto riserbo anche durante i rari rimpatri (una volta ogni tre anni) a Torino. Così come non si vanta dei successi ottenuti, evidenti agli occhi di chiunque voglia saperlo.
Nella discrezione e nell’umiltà Olga lavora instancabilmente a Mwandi fino al 1983 quando, in occasione di una visita della sorella Isotta, ottantenne, si rompe un femore; Olga è l’unico medico della missione, gli infermieri non sono in grado di assisterla, organizzano così il viaggio di rientro: l’ultimo. Arriva a Roma in barella accompagnata dalla sorella, la quale rivelerà in questa occasione i primi cedimenti dovuti a un Altzheimer non ancora diagnosticato; Olga è febbricitante per la malaria, il femore steccato alla buona, pesa 35 kg, ha 68 anni. A Fiumicino Isotta si perde e viene ritrovata solo 24 ore dopo, abbandonata in una stanza dell’aeroporto. Da qui le due sorelle proseguono per Torino dove alcuni amici e parenti sono in loro attesa per poter ricoverare urgentemente Olga al CTO dove verrà operata alla gamba.
È una donna stremata dalla fatica; lo stato italiano non l’ha cautelata dei suoi diritti (dall’Africa non riusciva a pagare alcun contributo e quindi era priva di pensione) e Olga può contare solo sul sostegno della sua famiglia; per non pesare sui loro equilibri, chiede asilo alla comunità romana di Sant’Egidio dove viene assistita amorevolmente e dove si spegne nel 2002.
Nel 1985 riceve dal presidente Sandro Pertini il Premio Minerva (dedicato alle donne che si sono distinte). Nel 1986 è nominata Cavaliere della Repubblica da Francesco Cossiga. Per quell’occasione si fa prestare un vestito e delle scarpe adatte.
Referenze iconografiche: immagine appartenente all'archivio di famiglia, fornita da Lorenza Salamon.
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023