Nadia Anjuman Herawi nasce nel 1980 a Herat, terza e illustre città dell’Afghanistan, dall’importante passato affiorante nei numerosi monumenti risalenti all’impero seleucide e sasanide. Oggi Herat è una città a prevalenza persiana, ed è diventata il più importante centro universitario afgano.

Per comprendere la vicenda umana di Nadia Anjuman Herawi dobbiamo ricordare il dicembre 1979, quando il Paese viene invaso dall’Urss, quando le truppe sovietiche travalicano i confini e giungono in soccorso al governo fantoccio della moribonda Repubblica Democratica per combattere i mujaheddin, i guerriglieri afghani responsabili della resistenza, sostenuti dagli Stati Uniti d’America e da altri Paesi occidentali. Il conflitto si sarebbe concluso nove anni dopo, con il ritiro delle truppe sovietiche e la vittoria dei mujaheddin che crearono lo Stato Islamico dell’Afghanistan.

Ma nel giugno 1992 scoppia una devastante guerra civile; nel 1996 salgono al potere i Talebani, con l’intento di stabilire una società islamica “pura” e libera dall’asservimento delle potenze straniere, attraverso l’inflessibile applicazione della sharia, con le sue rigidissime leggi di condotta morale, religiosa e giuridica.

Con il governo talebano le libertà delle donne vengono drasticamente limitate. Nadia Anjuman, che fino a quel momento, è stata una studentessa modello, trova davanti a sé un futuro senza speranza.
I talebani imposero numerosi divieti, tra cui il divieto assoluto di uscire di casa non accompagnate da parenti, di parlare con un estraneo di sesso maschile, di praticare lavori fuori delle mura domestiche. Inoltre proibirono l’istruzione femminile, sia pubblica che privata, chiudendo le scuole per le ragazze. Introdussero un elenco lunghissimo di divieti per le donne, tra cui il divieto di andare in bici, di truccarsi, di indossare tacchi, di uscire sui balconi di casa, di praticare sport e l’obbligo di indossare il burqa; introdussero le frustate a chi contravveniva a tali obblighi e la lapidazione a chi si macchiava di reati contro la morale.

In quello stesso anno, Nadia Anjuman iniziò a riunirsi con un gruppo di altre donne in un circolo clandestino, la Golden Needle Sewing School, guidata dal professor Muhammad Ali Rahyab, dell'Università di Herat. Sotto il finto appellativo di scuola di cucito, i membri della scuola si riunivano tre volte a settimana fingendo di incontrarsi per praticare lezioni di sartoria, una delle pochissime pratiche ammesse dal governo talebano. In realtà gli incontri erano tenuti da professori dell'Università di Herat e si trattava di corsi di letteratura e cultura. Il progetto era ambizioso e i partecipanti correvano il rischio di reclusione, tortura e impiccagione. Per cercare coperture le donne facevano giocare fuori dall'edificio dove avvenivano le lezioni i propri figli, che le avrebbero avvisate in caso di arrivo della polizia religiosa.

Il programma proseguì durante tutto il periodo di governo talebano. In un tempo in cui alle donne non era permesso lasciare le abitazioni, il professor Rahyab aiutò Nadia a sviluppare una propria voce nella scrittura, introducendola allo studio di scrittori della portata di Forough Farrokhzad. Nel 2001, all’età di 21 anni, non appena il regime dei talebani fu estromesso, Nadia s’iscrisse alla facoltà di Letteratura dell’Università di Herat e si laureò.

A proposito della situazione politica del suo Paese, a seguito degli attentati dell’11 settembre, ebbe a dire: «Come si fa a parlare di sentimenti che le grandi democrazie si sono spartiti sulla tua pelle? Sono nata per il nulla. Le mie labbra dovrebbero essere sigillate. Il nulla si è fatto ferita viva e aperta in ogni donna, e in ogni essere umano afgano, che abbia provato ad emanciparsi con tutte le difficoltà di un governo imposto, di elezioni non limpide, ma che anche nel fango ha provato a risollevarsi. Poi, all’improvviso chi ti ha destabilizzato per vent’anni, e “aiutato” per altri venti, decide di abbandonarti in mano a quelli che erano stati considerati i nemici peggiori delle libertà. Tutto ebbe inizio con BIN LADEN, ma ben prima delle torri gemelle, quando nel 1979 si unì ai mujahedin finanziati dagli Stati Uniti per far cadere il governo filo-sovietico, e tutto è finito con Biden».

Dopo la laurea, nel 2005, Nadia Anjuman pubblica il suo primo libro di poesie, Gul-e-dodi (Fiore di fumo) che ottiene buon successo in Afghanistan e viene diffuso anche in Iran e in Pakistan. Nello stesso anno sposa il compagno di studi Farid Ahmad Majid Neia, come lei laureato in letteratura. Ma Neia, pur essendo un uomo colto, non vede di buon occhio il fatto che Nadia scriva poesie. Sempre nel 2005 nasce il loro primo figlio, mentre Nadia sta anche lavorando alla pubblicazione di un secondo volume di poesie che sarebbe uscito l’anno successivo, con il titolo Yek sàbad délhore (Un'abbondanza di preoccupazioni).

Il 4 novembre del 2005 Nadia e suo marito hanno una violenta discussione. Quella notte Farid la picchia fino a farle perdere conoscenza. Diverse ore dopo, l’uomo prende un taxi e porta la moglie in ospedale. L'autista del taxi avrebbe dichiarato alle autorità che la donna era già morta quando era stata messa nel veicolo. L’uomo invece dichiarò che la moglie aveva assunto del veleno, ma impedì ai medici di effettuare l'autopsia. Fu condannato ma subito rilasciato, dopo pressioni dei capi tribali della famiglia della donna. La morte di Nadia Anjuman fu ufficialmente considerata un suicidio e il figlio della coppia affidato alla custodia paterna.

Nadia Anjuman ci lascia una grande eredità di forza e bellezza qui riassunta in questi versi tratti da Fiore di fumo: «Sono stata silenziosa troppo a lungo/ Ma non ho dimenticato la melodia/ Perché ogni istante bisbiglio le canzoni del mio cuore/ Ricordando a me stessa il giorno in cui romperò la gabbia/ Per volare via da questa solitudine».



Voce pubblicata nel: 2024

Ultimo aggiornamento: 2024