«…Quando la mattina apriva la finestra e la luce ritornava, era solita dire: Buon giorno, giorno. Noi siamo qui». Miriam Massari, nata a Roma, compì nella capitale gli studi classici, studiò l’inglese e si specializzò in radiotecnica. Nella adolescenza fu colpita da una durissima forma di artrite reumatoide, che non riuscì a far retrocedere o bloccare; ed anzi, si esacerbò. Tutta la vita si batté, come una leonessa, per i diritti delle persone disabili. Il suo obiettivo conclamato è stato: «Ottenere l'indipendenza di coloro che vivono una condizione di dipendenza fisica /o psichica» perché le persone con disabilità “hanno anche diritti e abilità”. In uno splendido (e sempre attualissimo) saggio: La trappola [1] Miriam Massari denunciò gli aspetti negativi della pur necessaria attività di assistenza, svelando la oscura volontà di potenza che c’è nella cura e protezione delle persone disabili, anche da parte delle stesse famiglie. «Proteggere» - scrisse - «può significare bloccare, imprigionare, soffocare». Aveva riflettuto molto sullo stesso argomento: «I familiari si sentono più a proprio agio in un mondo a parte, senza confronti temuti» [2]. «Non abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti ad uscire da un pozzo, chiediamo che non lo si chiuda ermeticamente, che si lasci circolare l’aria. Se poi qualcuno vorrà affacciarsi e allungare una mano, sarà affar suo» [3]. Innumerevoli i suoi interventi sui giornali, sulle radio, e, quando le è stato possibile, nelle aule universitarie e nelle assemblee politiche. Non esiste forse quotidiano o periodico che non abbia ospitato, almeno una volta, una sua lettera, una sua intervista, un suo grido: da Radio spazio aperto, alla Seconda e Terza rete radiofonica e televisiva; dai quotidiani e periodici nazionali e locali («;Messaggero», «Repubblica», «Manifesto», «Avvenimenti», e altri), a quasi tutte le riviste femminili autogestite («Sofia», «Il Paese delle donne», «Mezzocielo», «Il diritto delle Donne»). Ovunque Miriam Massari ha fatto sentire la sua voce. Si è rivolta e ha scritto a ministre e ministri della Sanità e delle Pari Opportunità di tutti i governi succedutisi nel tempo. Un episodio eclatante (non improvvisato, ma intelligentemente costruito) la fece conoscere in tutta Italia. Nell’autunno del 1989, recatasi alla stazione ferroviaria di Roma su una sedia ortopedica, pretese di salire nei normali scompartimenti come gli altri passeggeri; ma non potendo la carrozzella superare i gradini del vagone, le fu proposto di essere deposta dentro il carro merci! Dove effettivamente si fece collocare e viaggiò. Di qui lo scandalo, e la mobilitazione nazionale per l’abbattimento delle barriere architettoniche. Si denunciò l’inciviltà del fatto; ne parlarono quasi tutti i mezzi d’informazione. «Si fece molto clamore»- commentò poi Miriam - «ma si presero pochissimi provvedimenti». Da allora Miriam volle proclamarsi “prigioniera politica per disabilità”, e così continuò a firmarsi. Criticò ed anche irrise movimenti e associazioni per i diritti civili, che però «ignorano i diritti inviolabili delle donne, uomini, bambini disabili». Scrisse anche (rivista «Sofia», 1997): «Chi si batte per le libertà inviolabili e non vi include coloro che nulla possono fare da sé, non può produrre cambiamenti buoni per tutte/i». Particolarmente incisiva la sua critica nei confronti delle associazioni e riviste femminili, che riteneva insufficientemente coinvolte nella problematica della disabilità. Ripeteva che si doveva tenere sempre presente, quale che fosse l’argomento trattato, che ci sono donne, uomini, bambini disabili che fanno anch’essi parte dell’argomento affrontato. Incitava le donne impegnate nel giornalismo, nella politica e nelle attività sociali, ad utilizzare la “inquadratura ad includere”. Si serviva del linguaggio cinematografico per chiarire il suo pensiero: bisognava allargare l’obiettivo della macchina da presa, per farvi entrare altri personaggi. «Se nel copione i personaggi sono previsti, bene; altrimenti si deve riscrivere il copione…… Ascoltando o leggendo non sono mai sicura che nella testa delle donne vi sia anche l’altra donna, quella con un evidente corpo e/o mente in disordine. Anzi, sono sicura di no» (rivista «Sofia», 1997). Riteneva fondamentale la precisione del linguaggio. «Cosa chiedo ai mezzi di informazione?» – scriveva in una lettera a Mezzocielo nel gennaio 2011 – «Che informino, che adottino un linguaggio che nomini e non sottintenda». Sconvolta da un documentario sulle donne dell’Afghanistan imprigionate nel burka, nella cui costrizione in qualche modo si identificava, fece notare che tra loro dovevano esserci anche donne malate e disabili. «Si pensa a quel di più d’ingiustizia, di massacro, di apartheid che subiscono?» – si domandava. Era venuta a conoscenza della nascita di un movimento di studenti disabili nella università di Berkeley (California), che avevano respinto l’assistenza organizzata ed erano andati ad abitare in gruppo, da soli, gestendo in proprio i fondi destinati alla loro cura. Miriam fece tesoro di questa esperienza, prese informazioni su piccole esperienze simili verificatesi anche in alcuni comuni italiani, e iniziò una campagna per rivendicare «la gestione diretta del denaro destinato all’assistenza delle persone che nulla possono fare da sé». Creò un vero e proprio movimento di opinione, e si rivolse pubblicamente al Comune di Roma, perché fossero cambiate radicalmente le modalità di sostegno alle persone disabili. L’assistenza domiciliare generica, approssimativa, impersonale e con frequenti avvicendamenti, spesso è opprimente, perché meccanica, non rispettosa della dignità del corpo e della sensibilità della persona disabile. Questa deve avere il diritto, se vuole, di gestire in proprio i fondi pubblici destinati alla sua assistenza, e scegliere “chi metterà le mani sul suo corpo”. Miriam delineò la struttura di uno specifico Servizio di Assistenza per la Vita Indipendente (SAVI). Con il sostegno di un’opinione pubblica che seppe informare e mobilitare, ottenne che la Giunta comunale di Roma approvasse, nel 1996, la delibera 1027, che stabilisce appunto la possibilità per le persone disabili di gestire direttamente il denaro pubblico destinato alla loro assistenza. Ispirata alla esperienza di Berkeley, si era intanto costituita in Europa l’ENIL (European Network on Indipendent Living, Rete Europea per una Vita Indipendente), e poi l’ENIL-Italia, della cui Segreteria Operativa Nazionale Miriam Massari fu chiamata a far parte. Ella si era anche coraggiosamente impegnata in politica. Era entrata (1992) nel movimento per la democrazia “La rete”; aveva partecipato alle campagne elettorali comunali a Roma; era intervenuta ad innumerevoli dibattiti, incontri e gruppi di studio di diversi partiti (di sinistra e verdi). Poi, con una buona dose di delusione («sono lenta a capire gli animali politici»), se ne allontanò. È stata soggettista cinematografica, scrittrice di racconti, e soprattutto poeta di grande sensibilità ed efficacia. Nell’ultima parte della sua vita iniziò a dipingere. Il suo compagno e marito, Piero Pannaccio (si conobbero nel 1981, si sposarono nel 1984) dice di lei: «Miriam era un vulcano, riempiva la casa e me, di vita… ‘Non riesco a stare senza fare qualcosa’ mi diceva ‘dammi un blocco e la matita, voglio disegnare’. ….Quando la mattina apriva la finestra e la luce ritornava, era solita dire: ‘Buon giorno, giorno. Noi siamo qui’». Il 25 dicembre 2011 mi scrisse: «Ogni “brandello di bilancio esistenziale” entra di prepotenza in uno spazio tondo della mia anima, sempre aperta alla vita degli altri, sempre assetata d'altra esperienza…. Alcuni dei miei mali cambiano e non posso dire di star meglio. È entrato l'ossigeno nella nostra casa, nella nostra vita e nel mio naso. Occorre una quantità di pazienza incredibile». Quindici giorni dopo moriva. NOTE1. Pubblicato nel volume Le perversioni sessuali, Franco Angeli 2004.2. Lettera a Claudio Fracassi, in «Avvenimenti», 1998.3. Rivista «Sofia», 1997.Torna su
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2012