Margarethe von Trotta nei panni di Elizabeth Junker schizza nel traffico sulla sua motoretta. Si sciacqua il viso con acqua fredda, chinandosi con la testa fino a sfiorare il rubinetto. Corre, prende lezioni di canto e di musical. In quelli di Sophie von Reval si innamora disperatamente di un aristocratico tedesco suo pari, combatte con la resistenza bolscevica, si ubriaca, si fa sparare al cuore dall’amato. In Dèi della peste di Rainer Werner Fassbinder si fa da parte per lasciare spazio a una femme fatale, osserva e non commenta, sorride da sotto la frangia spessa – Margarethe porta lo stesso taglio biondissimo da quasi tutta la vita, lungo poco oltre le spalle, dentro e fuori il set. Ha gli occhi azzurri, limpidi, lo sguardo furbetto.

Come attrice, ha impersonato almeno due volte – sebbene sotto mentite spoglie – Gudrun Ensslin, la rivoluzionaria-terrorista che con Andreas Baader fondò la Rote Armee Fraktion e si diede alla lotta armata, dopo aver abbandonato marito e figlio: in Brandstifter, del 1969, è Anka, che dà fuoco ai grandi magazzini (come Gudrun aveva fatto l’anno prima). In Fuoco di paglia – diretto da Volker Schlöndorff nel 1972, anno in cui Ensslin, imprigionata a Stammheim, è sotto processo insieme ai compagni Meinhof, Baader e Raspe – Margarethe è una madre e una moglie che ha deciso di emanciparsi, mollando in tronco marito e figlio (ma a differenza di Gudrun non diventa guerrigliera: anzi tenta di ricostruire una situazione borghese, lavoro fisso e fissa dimora, per poter ottenere l’affidamento del figlio, che ha lasciato al padre per evitare che questi si facesse del male; e alla fine, per riuscirci, si rassegna a sposarsi di nuovo, perché: «Non è ancora arrivato il momento per l’emancipazione della donna». Perché: «L’emancipazione è un processo che coinvolge le generazioni, non gli individui. Non si può avere tutto, tantomeno tutto e subito»).

Margarethe von Trotta è poi diventata una grandissima regista, e un’ancora più grande autrice di sceneggiature, ma per arrivarci ha preferito cominciare come attrice.

Così ho potuto conoscere l’ambiente, capire come funzionava… Già nel 1960, quando studiavo alla Sorbonne di Parigi, e con amici francesi pazzi per la Nouvelle Vague cominciai a frequentare le sale cinematografiche, avevo capito che volevo fare la regista, che il cinema poteva essere arte. Il primo film però l’ho girato quindici anni dopo. Non c’erano le condizioni, prima. Ero una donna… E il cinema non era cosa da donne.

Esordisce dietro la macchina da presa a 33 anni – è nata nel 1942 a Berlino, da Elisabeth von Trotta, nobildonna di origini germano-baltiche, e dal pittore Alfred Roloff, morto nel 1951 – in coppia con Schlöndorff, che all’epoca è anche suo marito, realizzando la trasposizione cinematografica di Il caso Katharina Blum, dal premio Nobel Heinrich Böll. Pure in questo caso, ad aleggiare sul film sono lo spettro della RAF, il clima di sospetto poliziesco nella Repubblica Federale Tedesca degli anni Settanta, la kafkiana sensazione di essere colpevoli a prescindere.

Vince il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 1981 con Anni di piombo, capolavoro nel quale Gudrun Ensslin finalmente appare come tale, insieme alla sorella Christiane, e sono messi a tema l’epoca, le due facce della rivoluzione, ma soprattutto la sorellanza, e quella forma di moralità che trascende la legge, modulando con equilibrio prodigioso una versione aggiornata della tragedia di Antigone e Ismene.

Da allora, ha diretto in tutto 26 opere, tra lavori per il cinema e per la televisione, come Il secondo risveglio di Christa Klages (1978), Sorelle. L'equilibrio della felicità (1979), Lucida follia (1983), Rosa L. (1985), Paura e amore (scritto con Dacia Maraini e girato a Pavia nel 1988), L'africana (1990), Il lungo silenzio (1993), Rosenstrasse (2003), Io sono l'altra (2006), Vision (2009), Hannah Arendt (2012), più di recente Ingeborg Bachmann. Journey Into the Desert (2023). In sette di questi, protagonista è la straordinaria Barbara Sukova, che Margarethe scelse per interpretare Marianne/Gudrun, Rosa Luxemburg, Hannah Arendt, Ildegarda di Bingen (la geniale monaca benedettina, teologa, mistica, pittrice, musicista e molto altro venerata come Santa dalla chiesa cattolica e canonizzata nel 2012 da Papa Ratzinger, suo conterraneo)…

Basta snocciolare il rosario di titoli per capire quale sia l’interesse della regista. «Sì, racconto le donne. Sembra che l’abbia programmato, ma non è così. È che… io sono donna no? Parlo di ciò che conosco meglio. Gli uomini in fondo non li conosco così bene». In effetti, la filmografia di von Trotta è un formidabile, lucido pamphlet femminista – «all’epoca di Anni di piombo Margarethe era già molto più avanti di me in questo percorso» chiosa Sukowa nella prefazione a Gudrun Ensslin. Attrice, madre, terrorista, prigioniera – dove l’analisi critica, intelligente, dei valori e dei limiti (del femminismo, della politica, della militanza) non lascia spazio a intransigenze né aut aut; le cui battute in copione compongono brevi e acuti trattati di filosofia sui quali varrebbe la pena meditare; il cui approccio europeo e umanista sottintende che solo difendendo e coltivando l’umanità delle persone si possa ottenere un reale cambiamento del mondo («Sai bene che non ho mai amato nessun popolo, perché adesso dovrei amare gli ebrei? Io amo solamente i miei amici, è l'unico amore che sono capace di provare», fa dire alla sua Hannah Arendt).
Eppure, dei 26 lavori, quelli disponibili per essere visti dal pubblico italiano si contano sulle dita di una mano e mezza – cosa che lascia senza parole e a cui speriamo qualcuno ponga presto rimedio.

E dire che von Trotta ama, riamata, l’Italia. Ci ha abitato a lungo (negli anni Settanta, con Schlöndorff, visse per un periodo in un casale in Toscana: un giorno si ritrovarono circondati da uno schieramento di poliziotti convinti, a torto, che stessero dando rifugio a un brigatista in fuga) e tuttora ci viene spesso: presenza fissa allo storico festival Cinema e Donne di Firenze, è anche presidente onoraria del Bifest, festival internazionale di cinema con sede a Bari. È stato Ettore Scola a passarle il testimone, i due erano grandi amici. Le diceva «Tu fai sempre questi film scuri, così gravi, sei veramente una tedesca!» e Margarethe si domandava se ci fosse davvero una differenza tra i colleghi italiani e lei, che aveva e ha «tante paure prima di fare un film». Ha conosciuto Federico Fellini, è amica intima di Felice Laudadio, sceneggiatore di alcuni suoi film. Fu a von Trotta che, nel 1991, quest’ultimo passò la cornetta del telefono affinché convincesse Gian Maria Volonté, all’altro capo del filo, che non era uno scherzo, che davvero aveva vinto il premio come Miglior attore europeo. Gian Maria credette solo a Margarethe, che aveva conosciuto a Roma, provando istintiva simpatia. Così, il giorno dopo li raggiunse a Glasgow (avrebbe dimenticato la sua statuetta su una panchina poco dopo averla ricevuta, commosso, mentre Margarethe leggeva la motivazione: «Il primo premio speciale va ad un uomo al quale la giuria desidera esprimere la sua gratitudine per il suo genio e per la sua generosità» – ma questa è un’altra storia).

A imporre d’arbitrio la candidatura di Volonté, nemmeno preso in considerazione, era stato il presidente di giuria della European Film Academy, Ingmar Bergman.
Per il grande autore svedese, Von Trotta prova imperitura ammirazione da quando, in quel 1960 a Parigi, vide sul grande schermo Il settimo sigillo, che «mi ha procurato una gioia esplosiva, mi è rimasto qualcosa dentro che non si può neanche descrivere». E l’ha portata a decidere di diventare una regista. «La mia scuola di cinema è stata guardare film. Tanti, tantissimi film».

Nel 2018 proprio lei è stata chiamata a realizzare (insieme al figlio documentarista Felix Moeller) Searching for Ingmar Bergman, ancora visibile su SkyArte, per onorare i cent’anni dalla nascita del maestro.

Ma l’ammirazione fu reciproca: Bergman, che con von Trotta ha avuto un rapporto non intimo ma significativo, le confidò di aver ritrovato l’entusiasmo verso il loro mestiere solo dopo aver visto Anni di piombo. E più tardi, inserì questo film nella sua personale top ten, accanto a Kurosawa, Tarkovskij, Wilder...

Quando mi disse di aver molto amato Anni di piombo, che addirittura gli aveva ridato il coraggio, io pensai che fosse il complimento di un galantuomo. Quando invece lessi la lista dei suoi film preferiti, capii che lo pensava davvero, e la cosa mi fece molto piacere. Certo, nell’elenco c’erano solo uomini, quindi chissà, magari dubitò “Manca una donna, chi posso mettere”? [ride, nda] In ogni caso, per me è stato un grande regalo.

Ironico, brillante, delizioso understatement di una gigantessa.

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Margarethe von Trotta

Floreano Ilaria, Gudrun Ensslin. Attrice, madre, terrorista, prigioniera, Bietti I libri di INLAND, Milano 2024

Savino Francesca, Zappoli Giancarlo, Una lucida ribellione. Il cinema di Margarethe von Trotta, Multimage-CSC, Roma 2021


Von Trotta Margarethe (prefazione di Rossanda Rossana), Anni di piombo, Ubulibri, Roma 1982


Von Trotta Margarethe (con Spagnoletti Giacinto) , Lucida Follia, Ubulibri, Roma 1983


Von Trotta Margarethe (con Novati L.), Rosa Luxemburg, Ubulibri, Roma 1986



Voce pubblicata nel: 2024

Ultimo aggiornamento: 2024