Magda Minciotti non aveva ancora compiuto quindici anni quando l’8 luglio 1944 le SS fecero irruzione nella casa di Monte San Vito (AN), dove la sua famiglia era sfollata in seguito al bombardamento alleato che il 17 gennaio 1944 aveva disastrosamente colpito Chiaravalle.
I nazisti cercavano suo fratello Giacinto, comandante partigiano nella Vallesina; fallita la cattura, arrestarono per rappresaglia vicini e familiari. Poco prima che i tedeschi abbandonassero la zona per l’avanzare del fronte (il sud delle Marche era già stato liberato e il 20 luglio sarà liberata anche Chiaravalle), quasi tutti gli ostaggi riuscirono a liberarsi, ad eccezione di Magda e del fratello Giorgio, che rimasero prigionieri. Iniziò così l’odissea della deportazione in Germania per lavoro coatto, che doveva stravolgere la sua vita.
Magda era nata il 20 luglio 1929 a Fossato di Vico (PG) e abitava a Chiaravalle, dove il padre Giuseppe era capostazione. Faceva parte di una famiglia antifascista e poco conformista, dove la madre, Angelina Poggi, aveva portato con sé la figlia Agnese Lapini (nata da un primo matrimonio) e il padre Giuseppe il figlio Giacinto (Giorgio all’anagrafe, ma chiamato così per evitare l’omonimia col fratello); c’erano poi Sauro, Giorgio e Magda, la più piccola, figli di Angelina e Giuseppe, che costituivano una coppia di fatto, molto unita e stimata in paese.
Con tutta la famiglia, di radicate convinzioni mazziniane, Magda aveva partecipato attivamente alla Resistenza: spense le micce accese su un ponte, salvandolo dalla distruzione, e soccorse, di notte, il partigiano Nello Congiu, ferito mortalmente nello scontro a fuoco con una pattuglia tedesca.
Era una ragazza sveglia, alta di statura, con occhi fondi e una folta capigliatura castana raccolta in due grosse trecce riannodate; aveva frequentato con profitto il IV ginnasio al liceo “Vittorio Emanuele II” di Jesi e desiderava proseguire gli studi fino alla laurea. Anche se di condizioni modeste, la famiglia incoraggiava il suo desiderio di realizzazione: cosa infrequente nel periodo in cui il fascismo considerava naturale l’inferiorità delle donne, le relegava al ruolo domestico e aveva limitato il loro accesso alle professioni.
I tedeschi trascinarono gli ostaggi verso nord. A Forlì, nel centro di raccolta per i rastrellati, Magda fu destinata alla fabbrica Siemens di Norimberga; Giorgio, cagionevole di salute, fu invece selezionato per lavori leggeri in Italia, ma chiese di seguire la sorella per offrirle aiuto e protezione. Morirà di stenti a scavare trincee nel ghiaccio delle Ardenne, agli ordini della Todt, per fermare l'avanzata degli alleati sul fronte occidentale.
Pochi giorni dopo l’arresto, su un blocchetto di ricevute scadute trovato per caso, Magda iniziò a scrivere un diario:
"In questi 15 giorni, che hanno deciso la mia vita, ho sofferto, pianto; ma non credete che alcuno mi abbia vista. Ho pianto in silenzio, guardandomi attorno e scorgendo per la prima volta gli abissi della vita. […] bisogna tacere, abbozzare magari un sorriso […] chi conosce i miei sentimenti, e il mio orgoglio, può comprendere quanto ciò mi costi."
Continuerà a scrivere fino al momento della sua liberazione. Tornata a casa nel luglio 1945, ricopierà subito su un quaderno il testo che si stava deteriorando, aggiungendovi un titolo e una premessa in cui chiedeva magnanimità ai futuri lettori:
"Oh posteri!!!. non tacete – ma nello stesso tempo considerate ... considerate che avevo 15 anni."
Presto il ritorno si rivelerà per lei molto amaro: gravemente ammalata di tubercolosi, schiacciata dal dolore e dal senso di colpa per la morte di Giorgio, non riuscirà più a frequentare la scuola; nel clima di generale indifferenza con cui la società del dopoguerra accolse il ritorno dei reduci e considerò per le donne un marchio d'infamia l'essere state deportate in Germania, Magda scelse il silenzio.
Conservò con cura il diario e altri documenti di prigionia per lunghissimi anni e li consegnò al figlio Giorgio Castellani poco prima della sua morte, avvenuta nel 1990.
Il diario, documento storicamente raro, è tornato alla luce a distanza di settanta anni, grazie a un circolo di fiducia e al mio impegno a significare l’esperienza femminile coniugando ascolto empatico e rigorosa ricerca.
Magda scelse la scrittura come strategia di sopravvivenza, per rimanere in contatto con le proprie emozioni e non perdere la propria integrità; annotava accadimenti e riflessioni sui sentimenti che provava.
La sua prigionia fu segnata da fame feroce, freddo, sfruttamento, bombardamenti, in un contesto di violenza e privazione di dignità. Ma insieme a nostalgia, sconforto, dolore, il diario mostra le risorse messe in atto per resistere. Magda cercava di cogliere al volo le occasioni per infondersi coraggio, godendo delle piccole cose a portata di mano. Era attenta alla cura di sé: non rinunciò mai a lavarsi, anche se per farlo doveva sciogliere la neve; riuscì a debellare i pidocchi e a salvare le lunghe trecce che erano il suo cordone ombelicale con gli affetti familiari e la vita di prima. Costante era il suo richiamo alla mamma, specie quando sentiva bisogno di orientamento.
Riuscì più volte a costruire un tessuto di relazioni affettive, indispensabile per sopravvivere in lager, ma continuamente minato dai trasferimenti imposti; si legò ad alcune compagne di lavoro: con la valtellinese Laura Robustelli, l’amicizia durerà tutta la vita. Anche nella prigionia in Italia aveva sottolineato il sostegno scambiato con Leda Antinori, la partigiana fanese di diciassette anni, con cui aveva condiviso la cella a Mondolfo e Novilara.
Ebbe anche capacità organizzativa: a costo di grandi sacrifici riuscì a procurarsi scarpe e vestiti per l’inverno, non solo per sé ma anche per il fratello. Rifiutando il ruolo di vittima riuscì a resistere all’annientamento. Sopravvivere in condizioni inumane restando umane era un faticoso atto di resistenza, come in quegli stessi anni segnalava Etty Hillesum e come hanno testimoniato tante e tanti deportati, ebrei, politici e internati militari.
Il diario di Magda Minciotti è un esempio straordinario di resilienza femminile e di un percorso di crescita, che ci apre anche alla conoscenza della deportazione per lavoro coatto, praticata massicciamente dai nazisti in tutta Europa. Furono 8,5 milioni i civili - uomini e donne - rastrellati forzatamente a sostegno dell'industria bellica tedesca, a cui vanno aggiunti i prigionieri di guerra e quelli dei Konzentrationlager. Alla fine della guerra il lavoro forzato fu condannato come crimine dal tribunale di Norimberga, ma non le industrie che lo avevano utilizzato e che grazie a quei profitti sono rimaste tra noi. La disumanizzazione allora praticata ci interroga ancora nel nostro presente, dove il lavoro forzato ha trovato nuove forme di travestimento.
Referenze iconografiche: Immagini tratte dal libro di Anna Paola Moretti, Considerate che avevo quindici anni. Il diario di prigionia di Magda Minciotti tra Resistenza e deportazione, affinità elettive, Ancona, 2017
Voce pubblicata nel: 2020
Ultimo aggiornamento: 2023