Due signorine dell’800, due donne che la società del tempo voleva figlie, mogli, madri, abitanti dello spazio domestico come unica fonte di realizzazione. Il Trentino della dominazione austriaca si presentava come un ostacolo alla formazione della donna, alla sua educazione e all’accesso alle professioni. Alle donne non era permesso frequentare le scuole superiori tranne la scuola magistrale per diventare maestre.

Le sorelle Pischel appartenevano a una famiglia originaria di Garmisch, in Baviera. Il nonno Antonio Pischel era orologiaio, soldato nelle armate napoleoniche che andò a stabilirsi a Rovereto. Ebbe due figli, Antonio e Giuseppe. Il primo, padre delle due signorine, che modificò il nome della famiglia in Piscel, era bilingue, tedesco e italiano, era un imprenditore serico, un uomo colto, membro dell’Accademia degli Agiati, esponente della vita pubblica cittadina e appassionato studioso di geologia dell’Altopiano. La madre, Giuliana Redolf, poi Giulia Ridolfi, di origine ladina, era stata cresciuta con un’educazione durissima, attraverso prove di sopravvivenza in un rifugio al passo San Pellegrino con la sola compagnia del cane da valanga ed era stata mandata presso la famiglia Pischel per imparare l’italiano. Giulia rimase vedova nel 1880. Nonostante fosse benestante, secondo la legge del maggiorascato, vigente all’epoca, da donna sola, venne sottoposta a regime di inferiorità giuridica nella tutela dei figli. Pur contraendo debiti, riuscì a reagire sempre con straordinaria forza e determinazione.

Le due signorine, poiché appartenenti a una famiglia altolocata, avevano gli istitutori personali, suonavano il piano, studiavano le lingue, le arti pittoriche e le buone maniere ed erano destinate a diventare buone padrone di casa.

Nel diario di Luigia Pischel si evince che le sorelle, leggevano un foglio settimanale intitolato “Cordelia-Giornale per le giovinette italiane”, fondato il 6 novembre 1881 a Firenze da Angelo De Gubernatis, sul modello delle pubblicazioni ottocentesche dirette da uomini, che si poneva come scopo fondamentale quello di educare le giovinette.

È l’800 romantico a creare il cliché della donna angelo, custode del focolare, una donna motore del nucleo familiare, una creatura posta sotto la protezione dell’uomo perché è il “sesso debole”, circondata da un’aurea di purezza, fragilità, chiusa in una gabbia di indumenti che la nascondono al mondo e caratterizzata da pallore quasi anemico.

Luigia Carlotta Caterina Pischel, la più grande delle due sorelle, nella foto a sinistra, amava raccogliere pensieri, frasi, ricordi, testimonianze e dediche dei suoi più cari amici e parenti in un diario in pelle da lei cesellata, con delle miniature all’interno. All’epoca il diario non era l’oggetto con cui la ragazza parlava e si confidava, ma era uno spaccato della vita dell’epoca e dei modi del tempo: ogni scritto di personaggi illustri da lei raccolto con dedica inclusa, era un monito o un insegnamento per la vita futura.

Giulietta Pischel, la sorella più piccola, a destra nella foto, scappò da Rovereto a causa della guerra e iniziò a collaborare con alcune riviste in qualità di poeta e scrittrice. L’«Azione muliebre», periodico mensile delle donne cattoliche fondato a Milano nel 1900, pubblica una sua poesia all’epoca della sua morte, intitolata Tramonti primaverili. Veniva ricordata, da chi l’aveva conosciuta, per la sua aristocratica parlata in “erre”. La giovane Giulietta era anche una pittrice: suo è un quadro conservato nella villa di Serrada a Folgaria, di proprietà della famiglia, che mostra la strada che arrivava sotto la casa alla fine dell’800.

Le due ragazze del roveretano, nel settembre del 1888, compirono un’impresa in un mondo, quello alpinistico dell’800, dominato dagli uomini: riuscirono a raggiungere la cima della Marmolada. Nell’Annuario della SAT 14, Società Alpinisti Tridentini, del 1888 compaiono le salite e le escursioni rilevate dai libretti delle guide del Distretto di Cavalese: sotto al nome della guida Giorgio Bernard sono annotate tutte le sue uscite e alla data del 15 settembre compaiono i nomi: “Sig.ne L. e G. Pischl. […] Rovereto Marmolata”; sotto al nome della guida Luigi Bernard alla data del 16 settembre sono annotati gli stessi nomi.

Le guide alpine, inizialmente dei valligiani che erano saliti in montagna all’inseguimento della selvaggina, venivano ingaggiate dagli stranieri per essere accompagnati sulle zone più impervie. I due fratelli Bernard, Giorgio e Luigi, di Campitello, accompagnarono le due sorelle Pischel nel cammino verso la Marmolada guidando muli sui quali avevano preso posto le signorine in abiti di crinolina e lunghe gonne, insieme a enormi sacchi pieni di ogni ben di Dio, cui diedero fondo in un rustico pic-nic al limite del ghiacciaio. "L’alpinista di fine 800 non era poi così diversa dalla distinta signora che passeggiava per le strade della città".1

Dal racconto delle due sorelle:

Giungemmo al nevaio ove sostammo per fare uno spuntino e per metterci la completa tenuta da ghiacciaio; a noi donne furono condonate le cosiddette scarpelle, perché non essendo abituate a sentirsi ferrato il piede a quella maniera si correva il rischio di inciampare e di cadere. Si ebbe l’onore di mettere anche noi gli occhiali da ghiacciaio.2
Non si lasciano scoraggiare da nessuno, nemmeno dal "discorso, che ci tenne il buon curato di Soraga perché voleva distorci dal nostro proposito".
Partirono di buon mattino per Moena, salutarono la mamma che le aveva accompagnate fino ad un tratto del cammino, passarono la notte nella valletta della Fedaia e il giorno dopo ripartirono per raggiungere la cima della Marmolada.
Si camminava a passo di carica…frettolosi…facemmo solenne ingresso in paese… vedendoci risoluti….con un po' di coraggio e di prudenza da parte nostra… le loro parole non servivano che ad eccitarci vieppiù aggiungendo agli stimoli dell’amor proprio quelli dell’orgoglio nazionale….mi sembrava sempre di essere presa da una gran febbre. Vedevo delle rocce a picco a cui bisognava dar la scalata, mi si cacciavano davanti bocche nere di crepacci spaventosi, mi sembrava di vederci rotolar tutti quanti giù per la ripida schiena del ghiacciaio. La via, se quella si può chiamar via, era piuttosto malagevole e noi si procedeva silenziosi, uno dopo l’altro.
L’ambiente così estremo a cui le signorine si erano esposte ha permesso loro di misurare le proprie capacità, senza interventi esterni:
D’altra parte, la gioia del trionfo sui pericoli già superati ci impediva quasi di accorgerci di quelli in cui trovavamo. Per noi fu un vero e proprio trionfo, di cui andavamo superbe, perché ci pareva d’aver loro mostrato che anche nella donna italiana c’è la fibra di sopportare disagi e pericoli, e che quello che finora le manca per eguagliare anche sul campo alpinistico le sue compagne della Germania e d’Inghilterra è la volontà di accingervisi. Lassù non si fa più sentire la stanchezza e lieti della vittoria riportata sopra sé stessi si benedice il momento d’essersi avventurati a quelle altezze, perché simili emozioni si provano di rado nella vita.
Il desiderio di Luigina e di Giulietta era quello di conoscere sempre di più, di spingersi oltre per poter sfidare anche sé stesse. Sfidare la montagna era certamente oltrepassare i limiti imposti dalla società, ma soprattutto i propri limiti.

Note


1 Riccardo De Carli. Abiti in vetta, note sull’abbigliamento alpinistico – Trento Biblioteca della Montagna- SAT 2013

2 Annuario SAT- 1891-1892 – Trento Biblioteca della Montagna



Voce pubblicata nel: 2024