Poetessa irachena cristiana, nasce a Baghdad nel 1965. Cittadina americana dal 2007. Nel 1990, a causa delle crescenti minacce e vessazioni da parte delle autorità irachene per i suoi scritti, viene costretta a fuggire negli USA dove attualmente risiede. Ha studiato nella Wayne State University di Detroit e lavorato presso il giornale iracheno «The Baghdad Observer». Nel 2001 riceve dalle Nazioni Unite il premio per la libertà di scrittura. Mikhail parla inglese, arabo e assiro.
Vive in Michigan dove lavora come coordinatrice delle risorse arabe nel locale distretto scolastico e universitario. È impegnata nell’ambito della cooperazione e dello sviluppo tra arabi e occidentali. Si fa portavoce, con la poesia che narra la guerra, di migliaia di connazionali:
La guerra lavora molto
non ha simili
ma nessuno la loda.
La guerra puntualmente uccide e disintegra città e villaggi, non risparmia nulla, neppure gli ospedali, neppure l’innocenza dell’infanzia. La guerra ha i suoi obiettivi e serve a tutti i potenti di ogni cultura, razza e religione e quel «nessuno la loda» è un’accusa pesante, che fa riflettere. Il principale obiettivo delle feroci critiche di Dunya Mikhail è Saddam Hussein dal quale è riuscita miracolosamente a fuggire nel 1990. Dietro quel dittatore c’è tutta la storia dell’Iraq e del Medio Oriente, con le sue contraddizioni. "Per la guerra si lavora molto", scrive Mikhail, per la guerra si lavora come per null’altro su questo pianeta. Il popolo si occupa di quel vergognoso lavoro sommerso che sta alle spalle della guerra, quel popolo che è "regista di una grande tragedia". Non si tratta del grande popolo arabo, orgoglioso delle proprie origini e della propria storia, ma di un pubblico anonimo, il cui applauso "scuote le ossa". Lei non grida, non schiaffeggia, sfila da sola in una manifestazione muta.
La guerra com’è seria attiva e abile!
Sin dal mattino
sveglia le sirene
invia ovunque ambulanze
scaglia corpi nell’aria
passa barelle ai feriti
richiama la pioggia dagli occhi delle madri
scava nel terreno
dissotterra molte cose dalle macerie
alcune luccicanti e senza vita
altre pallide e ancora vibranti.
Suscita più interrogativi
nelle menti dei bambini.
Intrattiene gli dei lanciando
missili e proiettili
in cielo…..
La poesia La gemma è un piccolo gioiello d’armonia. I versi raccontano la storia e la sofferenza di Dunya e del suo popolo. Se il ponte è stato abbattuto dalla guerra, c’è sempre una gemma che galleggia sopra la nave che affonda, una gemma che non ci farà mancare la sua luce azzurrognola e la sua speranza di vita: è la poesia, è l’incontro (possibile) tra la cultura araba e quella occidentale.
La gemma
Non è più sul fiume
non è in città
non è sulla carta
il ponte che era il ponte che eravamo
abituati ad attraversare
il ponte
l’ha gettato nel fiume la guerra
come una signora
la sua gemma azzurra
da sopra il Titanic.
Dunya Mikhail è autrice di sei libri in arabo, tre in inglese e uno in italiano. Ha curato l’antologia di poeti iracheni 15 Iraqi poets.
Ha ricevuto diversi riconoscimenti tra i quali la Kresge Fellowship, l’Arab American Book Award, il Premio dei Diritti Umani.
La sua raccolta The War Works Hard è stata segnalata dalla New York Public Library tra i 25 libri del 2005 da ricordare. È co-fondatrice del Mesopotamian Forum For Art and Culture dello stato del Michigan. Il 3 agosto 2018, in occasione dell’anniversario del genocidio della popolazione yazida perpetrato dallo Stato islamico nell’Iraq settentrionale, Mikhail decide di raccontare le storie delle donne che sono sopravvissute a una delle pagine più crudeli della storia contemporanea:
“Era l’agosto del 2014 quando ho saputo che esisteva un mercato aperto per la compravendita di donne. Loro lo chiamavano “souk al-sabaya”, che significa “il mercato delle schiave”. Mi sono messa in contatto con amici e parenti a casa chiedendo loro cosa stesse succedendo. Così son venuta a sapere che migliaia di uomini erano stati uccisi e migliaia di donne e bambini erano stati catturati come bottino di guerra. Le persone marciavano in una lunga carovana, alcuni con i loro vecchi sulle spalle, sollevando la polvere alle loro spalle perché Daesh era arrivato, le loro bandiere nere sui carri del califfato. Ero in un momento di pausa dal mio lavoro di insegnante ma non potevo rilassarmi né riuscivo a occuparmi delle mie cose. Continuavo a seguire lo sviluppo della situazione giorno e notte. Pochi mesi dopo ho saputo che alcune donne erano fuggite al giogo di Daesh. Non ho potuto riposare fino al momento in cui non ho sentito le loro voci. Era così importante per me (e per loro) rendere testimonianza portando il loro dolore personale in una dimensione pubblica piuttosto che ignorarlo. Ascoltandole, desideravo che il mondo intero potesse arrivare e ascoltarle insieme a me. Il loro esodo mi ha riportato alla memoria esodi precedenti dei quali sono stata testimone. Compresa parte della mia storia personale. Con i loro racconti è stato come se a livello emotivo ci stessimo tenendo per mano, come se fossimo insieme. La mia parte preferita nelle loro storie è stato constatare come le donne si siano battute le une per le altre, come siano fuggite insieme.
Io sono con loro.”
The Diary of a Wave Outside the Sea, 1999
The War Works Hard, 2005
La guerra lavora duro (The Psalms of Absence), traduzione italiana di Elena Chiti, 2011
Referenze iconografiche: Dunya Mikhail nel 2016 ad una lettura commemorativa al National Portrait Gallery, Washington, DC. Foto di Avery Jensen. Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International license.
Voce pubblicata nel: 2020
Ultimo aggiornamento: 2023