Non è facile inquadrare la figura di Anita Pallenberg: nella vita è stata modella, attrice, artista, stilista ma anche giardiniera per diletto. Nell’egemonia del pensiero politicamente corretto, la sua storia sembra dominata dal male, da errori e demoni, ma nell’immaginario di chi aveva vent’anni negli anni Sessanta e Settanta Anita è stata icona indiscussa della cultura giovanile e musicale di allora, capace di lasciare tracce indelebili.
Nata a Roma il 6 aprile 1942, in pieno secondo conflitto mondiale, trascorre gli anni dell’infanzia e della prima adolescenza nella villa di famiglia lungo la via Nomentana, dove gioca a vestire le bambole, solo che le sue “bambole” sono le sculture della collezione di famiglia. Il padre Arnaldo e la madre Paula Wiederhold vorrebbero per lei un’educazione tradizionale e rigorosa e, appena adolescente, le fanno frequentare un collegio in Germania. Questo ambiente sta subito stretto ad Anita: caparbia e ribelle, insofferente com’è alle regole, non impiega molto a farsi espellere per aver bevuto, fumato e fatto l’autostop.
A 16 anni, conclusa l’esperienza educativa tedesca, torna a Roma e la famiglia la iscrive in una scuola di disegno; ancora una volta però Anita fa di testa sua e alle lezioni preferisce la “dolce vita”, gli ambienti intellettuali e cinematografici del caffè Rosati in piazza del Popolo dove conosce Moravia, Pasolini, Fellini, dove impara il romanesco grazie a una giovane amica che si chiama Gabriella Ferri e dove frequenta gli artisti della cosiddetta “Scuola di piazza del Popolo”.
Di uno di loro si innamora: è il pittore Mario Schifano con il quale prima convive e poi si trasferisce a New York, entrambi attirati dalle novità culturali della Grande Mela. Anita è intelligente, bellissima, di una bellezza solare per niente scontata, affascinante, naturalmente elegante senza bisogno di sfoggiare ornamenti, capace di imporre il suo stile con la sola presenza. Il suo modo di essere anticonvenzionale e trasgressivo fa breccia negli ambienti newyorkesi e presto ne diventa una delle protagoniste; quando Mario Schifano decide che il soggiorno statunitense può terminare, Anita non è d’accordo e, non volendo tornare sui suoi passi, non lo segue. È ormai lanciata nel mondo della moda, ha un contratto come modella che le garantisce indipendenza economica, successo e viaggi in giro per il mondo. Per lei l’Italia è il passato e Anita, per ora, guarda avanti e lontano.
Durante un soggiorno in Germania si reca al concerto di un nuovo complesso britannico ‒ The Rolling Stones ‒ ancora non particolarmente famoso. Da quel momento la vita di Anita cambia di nuovo e anche quella del gruppo. Inizialmente è Brian Jones a far colpo su di lei perché è colto, parla tedesco e, ricorda Anita, “non fa l’idiota”. Di quel primo incontro dietro le quinte Keith Richards, destinato in seguito a diventare una figura fondamentale nella sua vita, ha sempre affermato di essersela “fatta sotto dalla paura”. Troppo bella, troppo indipendente, troppo colta, lei parla molte lingue mentre lui al suo confronto si sente “uno zotico, un provinciale. Anita mi parlava, mi contestava quel poco che balbettavo. Alle sue domande, l’unica risposta valida sarebbe stata: ‘E io che ne so?’”.
Maestra di ispirazione e di stile ‒ Keith Richards confesserà di aver trovato la sua cifra stilistica nell’abbigliamento indossando abiti e accessori di Anita ‒ introduce il gruppo musicale all’arte e alla cultura; in breve, come è stato riconosciuto dagli esperti del settore, diventa la sesta componente della rock band. Non è solo la musa del gruppo, piuttosto ne diventa l’asse centrale. Prima compagna di Brian Jones, che lascia durante un viaggio in Marocco per gli eccessi di violenza subiti, poi di Richards, col quale ha tre figli l’ultimo dei quali, Tara, morto a poche settimane dalla nascita, Anita è accusata di aver introdotto la droga nella rock band, il lato oscuro della storia. In un’intervista del 2016 confessa che la droga è stato a lungo il grande amore della vita, una storia d’amore a cui alla fine rinuncia per continuare a vivere. Dietro il successo, le luci della ribalta e gli eccessi c’è una vita da nomade, spesso in tour coi Rolling Stones, insieme al figlio Marlon e alla figlia Dandelion: “La cosa difficile con Keith è che dormiva tutto il giorno, e idealmente avrei dovuto stare con i bambini tutto il tempo. Non avrei potuto reggere i tour senza l’aiuto delle droghe”.
Demoni, disordine, irrequietezza e ribellione, anche la sua carriera di attrice ha lati bui come quando nel 1968, per poter girare il film thriller Performance (Sadismo in Italia) con Mick Jagger, è costretta ad abortire e la vicenda la segna. Sempre nel 1968 è con Jane Fonda sul set di Barbarella di Roger Vadim, dove interpreta il personaggio della Regina nera; anche in questo caso vicende poco chiare, come quella delle 20.000 sterline che il compagno Keith le avrebbe offerto per non girare il film. Anita non accetta alcun compromesso e partecipa alle riprese, tenace nel voler sostenere e difendere la propria indipendenza.
Che vivere con gli Stones non è stata cosa da poco lo ha rivelato più volte. Il gruppo musicale ha le sue leggi e alle mogli e compagne non è consentito entrare negli studi di registrazione, difficile per loro ritagliarsi spazi di autonomia, risucchiate come sono nel vortice: “È un’esistenza così solitaria, vivere con un rock 'n' roller. Non importa quanto ti ami, amerà sempre di più la sua musica. So che quando Keith lavora alla sua musica nient’altro gli importa. Può stare in una stanza con altre cinquanta persone e non notare altro se non la chitarra; per vivere con una rock star, una donna deve trovare un modo per rendersi indipendente”.
Lei c’è riuscita, ma pagando conti salati. Ha dichiarato di essere stata obbligata a separarsi da Keith Richards per la cattiva influenza esercitata su di lui a causa della droga. Keith riesce a disintossicarsi, lei no, la sua vita è sempre più alla deriva e fuori controllo. Alla fine l’isolamento e la solitudine la spingono a chiedere aiuto. Nel 1987, grazie alla sorella, comincia la rinascita attraverso la riabilitazione, non facile, spesso dura, con percorsi in salita e tortuosi durati una ventina di anni: “Non avevo scelta: ero rimasta sola, la mia famiglia non voleva più vedermi. Ero disgustosa, aggressiva, bevevo un sacco. Ero astiosa, non ero un’ubriaca felice. […] Poi ho iniziato a disintossicarmi. Ero anche un’alcolista molto malmessa e mi ci sono voluti vent’anni per uscirne. Sono andata in un centro per tossicodipendenti, alle riunioni degli Alcolisti Anonimi e tutto il resto […] Volevo vivere. Volevo avere cura di me stessa. La gente moriva, c’era l’Aids. Era un periodo cupo”.
Così si rimette in gioco e anche a studiare. Nel ‘94 ottiene la laurea quadriennale in Moda e arti tessili e comincia di nuovo a lavorare nel campo della moda, che però un po’ patisce preferendo trasferirsi in India per conoscere e lavorare i tessuti locali. Poi la madre si ammala e lei lascia tutto per starle vicino. Negli ultimi anni si dedica, per diletto personale, al giardinaggio, curando orti e giardini di amici e parenti e frequentando corsi di disegno botanico. Ogni tanto partecipa a qualche film e a sfilate di moda, magnetica e luminosa come sempre nonostante il bastone per camminare, le rughe sul volto, il fisico compromesso dal lungo uso di alcol e droghe. Ma lei non se ne cura, il suo motto nella vita è stato:
Sempre avanti, non spiegare, non lamentarti.
L’epatite C la stronca il 13 giugno 2017.
Catching Fire: The Story of Anita Pallenberg, documentario diretto da Alexis Bloom e Svetlana Zill, prodotto dal figlio Marlon Richards e basato sulle inedite memorie autobiografiche di Anita (2023) Simon Wells, She’s a Rainbow. The extraordinary life of Anita Pallenberg, Omnibus Press, 2020
Alain Elkann, Anita Pallenberg: la mia vita tra sesso, droga e Rolling Stones, in “La Stampa”, 4 settembre 2016
Lynn Barber, Lady Rolling Stones, in “The Guardian”, 24 febbraio 2008
Voce pubblicata nel: 2024
Ultimo aggiornamento: 2024