laborum et molestarum patientem,solitariam, taciturnam, parcam Virginia è la primogenita di Galileo Galilei; sua madre è la giovane compagna di lui, Marina Gamba, mai sposata, dalla quale Galileo avrà altri due figli. La mentalità aperta e rinnovata del padre non gli impedisce di riservare a Virginia e alla sorella Livia, il convento. Virginia entra così a 13 anni nel convento delle clarisse di San Matteo, in Arcetri, dove il 4 ottobre 1613 prende i voti come monaca di clausura e dove vivrà fino alla sua morte precocissima, giunta all’età di 34 anni. Ecco, con questo potremmo anche terminare qui la sua biografia perché apparentemente questa donna non presenta altri dati particolari, se non che è la figlia di uno dei più illustri scienziati di tutti i tempi. Ma nel silenzio della sua vita Virginia è riuscita a parlare al mondo in modo eccezionale. Di suor Celeste (chissà se scelse ella stessa per sé questo nome, così in sintonia con le passioni paterne…) infatti possediamo ben 124 lettere indirizzate al padre durante gli anni del convento, la prima datata Maggio 1623, l’ultima Dicembre 1633. Non possediamo le risposte di Galileo, distrutte dalla superiora per il timore di scatenare sul convento accuse di eresia, e ce ne dispiace perché l’epistolario sarebbe più completo e ci permetterebbe di comprendere meglio questo legame profondo instauratosi fra padre e figlia, una figlia che, nonostante la monacazione forzata, accettò sempre di buon grado la scelta del genitore per il quale sviluppò un sentimento profondo d’affetto, quasi d’adorazione, nonostante il difficile destino scelto da lui per lei. Come si evince dalle bellissime lettere, suor Celeste si prende cura del padre, non solo concretamente, inviandogli dolci e prelibatezze del convento (dove per altro la vita era grama, lamenta spesso la giovane monaca…), ma anche con consigli per il corpo e per l’anima; lo aiuta, come è stato giustamente sottolineato, a ritrovare «la difficile armonia fra la sua fede di cattolico e le rivoluzionarie verità scientifiche che veniva scoprendo grazie all’uso del cannocchiale». Si legge infatti in una lettera del 20 aprile 1633:«Dal signor Geri mi viene avvisato in qual termine Ella si ritrova per causa del suo negozio, cioè ritenuto nelle stanze del Sant'Uffizio; il che per una parte mi dà molto disgusto, persuadendomi ch'Ella si ritrovi con poca quiete dell'animo, e fors'anco non con tutte le comodità del corpo: dall'altra banda, considerando io la necessità del venire a questi particolari, per la sua spedizione, la benignità con la quale fino a qui si è costà proceduto con la persona sua, e sopra a tutto la giustizia della causa e la sua innocenza in questo particolare, mi consolo e piglio speranza di felice e prospero successo, con l'aiuto di Dio benedetto, al quale il mio cuore non cessa mai d'esclamare, e raccomandarla con tutto quell'affetto e confidenza possibile. […]Carissimo signor Padre, ho voluto scriverli adesso, acciò Ella sappia ch'io sono a parte de' suoi travagli, il che a Lei dovrebbe essere di qualche alleggerimento: non ne ho già dato indizio ad alcun'altra, volendo che queste cose di poco gusto siano tutte mie, e quelle di contento e sodisfazione siano comuni a tutti.» E ancora, sempre nel 1633 scrive, quasi adirata «Perché mi par quasi quasi che V. S. inchini a creder che più sia per rallegrarmi la vista del presente che di lei medesima: l che è tanto differente dal mio pensiero quanto sono le tenebre dalla luce.» A differenza di altri illustri padri - Alessandro Manzoni per esempio - adorati dalle figlie e incapaci di dimostrare loro affetto, Suor Celeste riuscì, si direbbe, nella impresa di farsi amare, seppur a distanza, dal padre che sentì per la figlia un affetto incondizionato e sincero, consapevole del grande sacrifico compiuto da suor Maria Celeste che fino all’ultimo, sola, gli rimase vicina. Le sue lettere, in ogni caso, non sono solo testimonianza di tutto questo. Esse infatti dipingono un quadro compiuto e articolato della società italiana ed europea di quel tempo. Dal convento questa monaca, non benestante, non potente, riesce a descrivere il mondo in tutte le sue sfaccettature, dimostrando, sottolinea giustamente Dava Sobel, una delle più autorevoli studiose di questo carteggio, come in un’epoca così tormentata e difficile, anche e soprattutto per le donne sia stato possibile coltivare il bene prezioso della libertà dello spirito. È questo che mi ha subito colpito quando mi sono imbattuta, durante uno studio con delle liceali con cui mi ero avventurata in una ricerca su Donna e scienza: siamo rimaste, giovani e meno giovani, colpite dalla profonda libertà che emergeva dalle lettere, scritte tra l’altro in un italiano purissimo e degno di studi più approfonditi, segno che la libertà interiore possa esistere al di là delle mura di un convento di clausura, al di là di scelte forzate. Abbiamo compreso come gli affetti possano conciliarsi con una dignità e un’autonomia degne di una donna moderna. Suor Celeste è sepolta in Santa Croce, insieme al padre, con i grandi d’Italia, ma, per non sbagliarsi, nessuna epigrafe ricorda che là giace colei che più di tutte è stata vicina al grande scienziato.
Bruno Basile (a cura di), Lettere di Virginia Galilei, Roma, Salerno Editrice 2002
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Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2012