Fin dalla prima giovinezza dimostrò Silvia un bellissimo ingegno e una naturale inclinazione agli studi, e a tutti gli studi: lettere, lingue, scienze, arte, musica. Tutto riuscì facile a questa donna eccezionale e in tutto riuscì a perfezione.
Così Agostino Zanchetta, suo amico e biografo, sintetizza la personalità della contessa Silvia Baroni Semitecolo, nata a Bassano del Grappa il 22 aprile 1852 nella splendida Ca' Rezzonico, di proprietà della sua famiglia. È la secondogenita - il fratello Paolo è nato l'anno precedente - di Alessandro Baroni, un ricco proprietario terriero e imprenditore illuminato, attento sia alle innovazioni tecnologiche sia al benessere dei suoi dipendenti. La madre, Marina Sprea, è figlia di un notaio e unica discendente, per parte materna, dell'illustre casato veneziano dei Semitecolo, il cui nome, affinché non vada disperso, viene aggiunto a quello dei Baroni. È una donna bella, colta e particolarmente dotata di fascino e di talento. Seguendo le orme della madre Caterina ama intrattenere relazioni importanti con poeti, filosofi, letterati ed artisti che frequentano il suo “salotto”, lo strumento che in continuità con la tradizione settecentesca è utilizzato da donne aristocratiche per emergere e affermarsi in società.
Silvia vive un'infanzia serena a Bassano, è una bambina intelligente e curiosa, e assimila con facilità i primi insegnamenti che, assieme al fratello, riceve dalla madre e dalla nonna. Sostenitrice della causa risorgimentale e per questo nel mirino della polizia austriaca, tutta la famiglia si trasferisce a Firenze, e lì rimane fino al 1868. Gli anni fiorentini sono molto importanti per gli studi di Silvia, che sotto la guida di ottimi maestri acquisisce un'eccellente formazione sia in ambito umanistico che scientifico. Scrive lettere in tedesco al padre e in francese al fratello, conosce anche l'inglese e lo spagnolo, studia il latino e il greco, Dante e la letteratura italiana ed europea e si interesserà lungo tutto il corso della propria vita alle scoperte tecnico-scientifiche, alla matematica, e diventerà perfino una studiosa competente e appassionata di mineralogia e di cristallografia.
Ma è la musica la vera grande passione di Silvia fin da quando, ancora bambina, viene avviata allo studio del pianoforte. A Firenze e Bassano prende lezioni da Hans Von Bülow, il direttore d'orchestra preferito di Wagner, nonché pianista e compositore, che la dichiara “allieva prediletta” dedicandole due edizioni di sonate di Beethoven. Giovanissima già possiede una completa conoscenza della teoria musicale e un'eccellente padronanza dello strumento, suona a memoria ed è dotata di grande sensibilità interpretativa al punto che avrà il privilegio di esibirsi con i maggiori pianisti dell'epoca, Giuseppe Martucci e Ferruccio Busoni. Ma il suo talento pianistico lo si può ammirare solo in consessi privati riservati ai familiari e ai loro fortunati ospiti e amici. Si dedica con successo anche alla composizione.
Silvia è molto legata all'adorato fratello Paolo, assai meno brillante negli studi e tuttavia da lei sempre sostenuto e incoraggiato. Purtroppo, fin da giovane piuttosto cagionevole di salute, Paolo muore nel luglio del 1872 all'età di 21 anni, con grande strazio della sorella, che da quel giorno in avanti scriverà sempre su carta intestata listata a lutto.
Il 27 aprile 1874 Silvia sposa il conte faentino Giuseppe Pasolini Zanelli, discendente di un nobile casato, molto noto e prestigioso in Romagna, le cui origini risalgono al medioevo. Lei ha 22 anni, lo sposo 30. Si sono conosciuti due anni prima a Firenze e si sono innamorati quasi subito. Giuseppe ha studiato legge all'Università di Bologna, ma i suoi interessi sono rivolti prevalentemente alla storia e alla storia della musica e pubblica opere di notevole rilievo, quasi una decina di volumi, che gli procurano la fama di autorevole intellettuale e supportano in qualche modo anche il suo ingresso nell'agone politico. Dal 1895 al 1900 sarà eletto per due legislature prima deputato poi senatore nel collegio elettorale di Cesena come rappresentante del partito liberale, ma per una sua particolare attenzione ai problemi delle classi meno abbienti sarà apprezzato e stimato anche dai socialisti.
Nel 1875 nasce il primo figlio della coppia, a cui viene dato il nome di Paolo, e un anno dopo il secondo, Pietro Scipione, chiamato affettuosamente Pierino. Questi momenti di felicità familiare sono bruscamente interrotti dalla morte improvvisa a soli tre anni del primogenito. L'anno successivo, 1879, nasce un terzo figlio, Tiberio, che si rivela un ragazzo studioso, molto dotato musicalmente e già abile pianista in giovanissima età. Purtroppo Tiberio muore di tifo nel 1891 all'età di 12 anni. Ai genitori affranti non resta che riporre tutte le speranze in Pierino, l'unico sopravvissuto, destinato a perpetuare il nome del casato. La madre si occupa personalmente della sua educazione, gli procura i migliori maestri, lo avvia allo studio del violino e lo porta con sé nei viaggi in Italia e all'estero. Ma il giovane, da sempre di salute malferma, scampato alla tubercolosi, non resiste a un improvviso attacco di una rara malattia, il morbo di Addison, e muore all'età di 22 anni nel 1898.
Nella tomba di famiglia a Faenza viene collocato un elegante busto marmoreo che lo rappresenta con accanto il violino, lo strumento che amava suonare talvolta in duetto con la madre al pianoforte. Sulla stele è scolpito l'epigramma funebre dettato da Giosuè Carducci:
Ci fu mostrato soltanto perché la vita con lui paresse un dono benigno di Dio e fosse sconsolato e deserto il viver senza.
La sequenza dei lutti familiari ha un effetto corrosivo sulla tenuta del matrimonio che si sfalda gradualmente, pur dietro una unione di facciata rispettosa delle convenzioni sociali. Giuseppe già prima della morte di Pierino ha cominciato a frequentare un'altra donna da cui ha avuto un figlio, relazione nota anche a Silvia, che la tollera, com'è d'uso tra la nobiltà, e quasi la giustifica convinta forse che possa colmare il vuoto lasciato dalla morte dei figli e lenire il dolore.1 In realtà col passare del tempo Giuseppe si lascerà sempre più andare, insensibile a tutto, dimentico degli amati studi, e inizierà a dilapidare il proprio patrimonio fino alla morte, nel 1909. Silvia invece, dotata di un carattere più forte e reattivo e confortata anche dalla fede religiosa, dopo un periodo di profonda prostrazione, comincerà gradualmente a riprendersi e a reimmergersi nella vita.
Del resto, nonostante il drammatico susseguirsi dei lutti familiari, le abitudini di vita di Silvia non vengono significativamente modificate, ma continuano ad essere costituite dagli studi, dalla musica, dai viaggi e dalle relazioni con altre famiglie aristocratiche e membri importanti del mondo artistico, culturale e politico. Faenza e Bassano sono le sue residenze principali, ma è di casa anche a Firenze e in Toscana, ha in affitto un appartamento a Bologna e da queste sedi muove continuamente per viaggi che hanno come meta l'Italia e l'Europa. Assiste alle rappresentazioni wagneriane a Bayreuth e a Vienna, è a Parigi per l'Esposizione Mondiale del 1900, visita Anversa e Bruxelles, soggiorna a Napoli, in Sicilia, a Venezia e Roma, dove ha una casa o è ospite di famiglie altolocate, facendo lei parte dell'entourage della regina Margherita. Tra le altre, una dimora le diventa particolarmente cara, perché amata da Pierino che le ha chiesto espressamente di rimetterla a nuovo dopo averla ereditata dallo zio paterno, la villa di Lizzano, sulle colline tra Forlì e Cesena, che prenderà il suo nome, Villa Silvia,2 e sarà testimone della lunga amicizia che si è instaurata tra lei e il poeta più famoso dell'epoca, il vate d'Italia Giosuè Carducci.
Nell'inverno del 1887 Carducci, di passaggio da Faenza, è invitato a pranzo da Marina e da Giuseppe, che già lo conoscono. Nell'occasione Silvia propone al poeta di musicare alcune sue poesie e a distanza di un anno può annunciargli di aver portato a termine il lavoro, pubblicato poi dalla casa editrice Ricordi col titolo “Melodie per canto e pianoforte"3 e recensito assai favorevolmente dalla critica. Dopo il primo approccio, tra Silvia e Carducci inizia, dal 1889, uno scambio epistolare e un legame affettivo che si protrae fino alla morte di lui.4
Il carteggio diventa sempre più fitto col passare del tempo e risulta evidente che l'anziano poeta è ormai preso da una vera e propria passione amorosa per la contessa, pur consapevole della velleità del suo desiderio inevitabilmente conflittuale con gli acciacchi dell'età. Le prime lettere sono indirizzate alla “Signora Contessa” che diventa poi la “Cara Contessa Silvia” e nelle ultime la “Signora Contessa Silvia molto amata.” Lei risponde al “Carissimo Senatore"5, molto amato amico” o all'“amico mio carissimo” o al “grande amico” e ha un ritratto di lui sul pianoforte a cui allude in alcune lettere come ad un “Amico”. Qualche volta lo chiama fin troppo confidenzialmente “Carduccetto”. Il linguaggio di Silvia potrebbe sembrare tipico di una donna innamorata, in sintonia con quello del poeta, ma la ripetitività della parola “amico” e la sottile ironia delle risposte di lei all'attempato spasimante, in una prosa elegantemente retorica e impreziosita da ricercate metafore e dotte citazioni da Lamartine, Shakespeare, Tennyson e numerosi altri, lascia piuttosto pensare che la contessa collochi la liaison su di un piano esclusivamente platonico, su di una sorta di affinità elettiva, sulla condivisione dei lutti - Carducci ha perso due figli in tenera età – e la passione per la musica e la poesia. Lo confermano gli studi seri e ben documentati di N. Guerra e A. Casalboni, che sottolineano inoltre come Silvia intrattenga un legame di profonda amicizia con Elvira, la moglie di Carducci, assai gelosa invece delle precedenti amanti del marito, delle quali ha distrutto numerose lettere, mentre ha risparmiato tutte quelle di Silvia.
Tra il 1897 e il 1906 Carducci è ospite fisso6 durante il periodo estivo a Villa Silvia, che diventa luogo di incontri con personaggi della cultura e della politica romagnola, spesso allietati da esibizioni musicali della contessa e di altri suoi ospiti, come la sua allieva di pianoforte e cantante Maria Ghelli e i tenori Alessandro Bonci e Angelo Masini. Nel giugno1905 è attesa, e accuratamente organizzata da Silvia, la visita della regina Margherita, che viene annullata all'ultimo momento a causa di un'ondata di maltempo in Romagna. Negli ultimi anni di vita di Carducci, Silvia diventa una presenza costante vicino a lui. Riceve in dono una preziosa edizione numerata delle sue opere, con dedica personale, assiste col marito e pochissimi intimi alla consegna del Premio Nobel conferitogli dal console di Svezia ed è l'unica persona che ha accesso al suo capezzale, in punto di morte, accanto alla moglie Elvira. Secondo A. Zanchetta, testimone assai attendibile, gli avrebbe anche portato il conforto di un crocifisso, baciato dal poeta morente, che in una lettera le aveva confessato la sua ammirazione per Cristo, “il gran martire umano”. Non a caso Silvia era stata accusata in alcuni articoli di stampa di aver smussato l'ostilità verso il cristianesimo del vecchio vate massone e mangiapreti.
Dopo la morte del marito Silvia è costretta a rimediare agli sperperi da lui compiuti negli ultimi anni di vita, mettendo in vendita numerose proprietà, compresi i palazzi di famiglia di Cesena e di Faenza, dove vive in affitto in un decoroso appartamento. Inoltre, per non perdere la prediletta villa di Lizzano, estingue le ipoteche che la gravano alienando altri suoi possedimenti. Le restano tuttavia i cospicui beni dei Baroni Semitecolo, oculatamente amministrati da Marina, che le permettono di continuare a vivere agiatamente, ma si libera di gioielli e opere d'arte per destinare il ricavato all'assistenza di famiglie di caduti, mutilati e reduci della grande guerra. Si divide tra Faenza, Villa Silvia e Bassano. Le sono accanto le poche persone care a lei rimaste, in particolare la madre, che muore nel 1915, l'amica americana, fiorentina di adozione, Francesca Alexander, e Agostino Zanchetta, amico fraterno del figlio Pierino, suo allievo di pianoforte e dopo la morte anche suo biografo.
Ma il pensiero di Silvia è ormai tutto rivolto ai cari defunti, al loro ricordo e alla speranza di rivederli nell'aldilà e cerca di entrare in contatto con loro anzitempo dedicandosi alle scienze occulte, allo spiritismo e avvicinandosi alla spiritualità induista e giudaica con lo studio del sanscrito e dell'ebraico. Negli ultimi tempi si chiude lentamente in se stessa e si spegne a Bassano il 7 settembre 1920. La salma sarà poi traslata a Faenza per riposare nella tomba di famiglia assieme al marito e ai figli.
Baroni Pasolini Zanelli Silvia, Melodie per Canto e Pianoforte, Milano, Ricordi,1889, in Raccolta Musicale, Fondo A. Cicognani, presso Biblioteca Manfrediana, Faenza.
Baroni Pasolini Zanelli Silvia, Testamento della Contessa Silvia Baroni Pasolini Zanelli, copia fotostatica, presso Biblioteca Manfrediana, Faenza.
Baroni Pasolini Zanelli Silvia, Lettere di Silvia Baroni Pasolini Zanelli a Carducci, presso Casa Carducci, Bologna, Epistolari.
Bazzocchi M.A., Cordibella G., Silvia: la fine della bellezza, in Carducci e i miti della bellezza, Bononia University Press, Bologna 2007.
Biagini Mario, Il poeta della terza Italia. Vita di Giosuè Carducci, Mursia, Milano, 1961.
Casalboni Antonella, Carte D'Amore, Aracne, Roma, 2012. (Al momento è la biografia più documentata ed esaustiva di Silvia Baroni Pasolini Zanelli)
Guerra Natalino, Carducci e la Romagna, Edit, Faenza, 2008.
Messeri Antonio, Da un carteggio inedito di Giosuè Carducci, Zanichelli e Cappelli coeditori, Bologna e Rocca San Casciano, 1907. (link a Internet Archive).
Veronesi Emanuela (a cura di), Musicalia, Museo di Musica Meccanica, Guida alla Visita, Edizioni Risguardi, Forlì, 2015.
Zanchetta Agostino, Silvia Baroni Pasolini, dattiloscritto presso Biblioteca Comunale di Bassano del Grappa.
Zecchini Antonio, Il salotto della Contessa Pasolini e Giosuè Carducci, in Carducci e D'Annunzio nella mia terra, pp. 114-139, Fratelli Lega, Faenza, 1933.
Voce pubblicata nel: 2025