Nel 1939 le donne medico in Italia erano trecentosessantasette e Rita Censoni, mia madre, era una di loro.
Era nata nel 1913, quarta di otto fratelli, da una famiglia di proprietari terrieri che già dalla generazione precedente si era avviata a diventare borghesia con mio nonno diventato medico. Nelle foto degli album di famiglia, incontro gli occhi spalancati e fermi della bimba a Torricella, poi l’adolescente esile che si intuisce ombrosa e timida a Teramo dove la famiglia si era trasferita perché i figli potessero frequentare il liceo. Quindi la studentessa universitaria alta e bionda in una Roma che ai suoi tempi, raccontava, finiva al Verano. Guardando le fotografie di quegli anni intuisco in lei un mondo materno diverso da quello che conoscevo: c’è qualcosa ancora dietro quella magra slanciata figura, una ragazza lontana da casa, coraggiosamente lontana, tutta dentro le sue e le altrui aspettative, con uno sguardo trasparente e sorrisi che sul suo volto non sono mai tramontati.
Donna medico fra le prime in Abruzzo, si specializza a Firenze nel 1941 in pediatria, scelta non so quanto dettata dalle minori resistenze verso l’esercizio di alcuni rami della medicina, quali pediatria, considerata più adatta alle donne perché percepita come un’estensione delle cure materne.
I primi passi professionali accanto a suo padre, anche lui medico come lo erano del resto anche due suoi fratelli. Si andava in calesse allora o poteva accadere di venire trasportati sino alla casa del malato su sedie legate alla “traia” (una sorta di slitta di legno trainata da buoi) e di essere ricompensati in mele e uova. Ma c’era la guerra e la dottoressa serviva anche al nemico: mi raccontava di come una volta fosse stata “prelevata” frettolosamente da una pattuglia nazista per curare un ufficiale e dopo averlo assistito fosse riuscita fortunosamente a fuggire. E poi le missioni sul treno sanitario messo a disposizione dal Ministero dell’Interno che andava di stazione in stazione nella tragica miseria e paura della guerra; nel 1941 era stata destinata a tutte e quattro le province dell’Abruzzo e dall’agosto 1942 al luglio 1943 alla provincia de L’Aquila. Continuava a curare i bambini anche sotto le bombe, lo testimoniano i lasciapassare tedeschi nel maggio del 1944 e del Comando alleato nel luglio e settembre dello stesso anno.
Poi, negli anni del dopoguerra non sceglie la libera professione, bensì la nomina a direttore sanitario per la provincia di Teramo dell’ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia), ente nato sotto il fascismo dentro la retorica del numero come potenza, ma che ha svolto un’azione importante nella capillare diffusione "di norme d'igiene prenatale e infantile anche mediante l'istituzione di ambulatori”, nell’assistenza alla maternità e a madri bisognose o abbandonate, nella lotta a tubercolosi e malattie infantili.
Nel frattempo, dal suo amore per mio padre eravamo nati io e mio fratello; per noi era una madre attenta ma dagli orari strampalati rispetto alle altre madri, non era lì a prepararci la merenda, ma ci ha cresciuto con una grande libertà. Nel mio ricordo di quegli anni la vedo partire, con il suo fido autista nel furgone Volkswagen carico di latte in polvere e medicine per i paesi più sperduti della provincia dove visitava gratuitamente, in spazi offerti dai comuni, bambini altrimenti privi di ogni assistenza sanitaria. Parlava con le mamme, a volte in dialetto, e scherzando smontava superstizioni secolari.
In questo suo compito portava una grande passione, una capacità diagnostica eccellente, una sconfinata umanità e una dedizione assoluta. Conosceva tutti, ricordo passeggiate che duravano ore, per strada la fermavano in tanti chiamandola “la dottoressa”, e la ringraziavano anche dopo anni, le mostravano i figli cresciuti, le cercavano un aiuto che non rifiutava mai, le domandavano un parere o semplicemente le raccontavano vicende personali. Instancabile, nel 1970 si specializza in puericultura e a questo affianca l’impegno nei patronati e nelle carceri, le corrispondenze per riviste del settore.
Per il suo impegno costante di “Direttore sanitario ben preparato, assai operoso ed attivo, di elevato costante rendimento, di ottime capacità, di notevole impegno” ha meritato il conferimento dell’onorificenza di Cavaliere dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana nel 1966.
Nei documenti la chiamano “Censoni Dott.ssa Rita” e in qualche modo è questa la sua definizione migliore: la sua identità – la famiglia dalla quale proveniva nota e stimata –, il suo ruolo – la dottoressa – e infine il nome, privilegio degli intimi.
Mia madre è stata una donna coraggiosa, io che conosco il suo privato, so che le sue scelte e la sua vita sono state difficili e condizionate dal suo lavoro sia nella salute che nella vita familiare, ma è stata così forte da riuscire a passare attraverso cose grandi e terribili. Certo, c’era in lei anche questa specie di schivo pudore, questa timidezza di un suo nucleo intatto, che è forse la stessa che le ha permesso di mantenere così fresca la sua energia e la sua generosità.
Nel corso della sua vita ha attraversato un secolo di cambiamenti profondi aderendovi, per senso vitale prima ancora che per chiara consapevolezza. Nel suo, come nei profili di donne pubblicati in questi anni, convivono la possibilità di professioni, passioni, scelte di vita, anche molto forti e la normalità con la quale vengono vissute, il senso di un destino, in sostanza un rapporto profondo con le proprie energie e una grande volontà nell’esprimerle ed è forse questo il messaggio più forte che queste testimonianze vogliono lasciarci.
Voce pubblicata nel: 2020
Ultimo aggiornamento: 2023