Nara nasce a Prato il 26 luglio 1924 nella casa del podere Niccolini di cui il padre era mezzadro.

Per individuare le tappe principali della sua vita è utile dare un’occhiata ai titoli dei capitoli che scandiscono l’unica biografia disponibile scritta a due voci con Maricla Boggio: La casa del podere, La montagna preziosa, La zia di Roma, L’Africa italiana, Il lavoro del telaio, La Guerra di liberazione, La tessera del PCI, L’amoroso compagno, La tessile artigiana, Dialogo filiale, La scelta femminista, L’esperienza istituzionale, Gli strumenti della sessualità. Da qui si ha subito chiara la cornice storica e il contesto in cui Nara si forma e plasma la sua soggettività di donna, artigiana e femminista.

Nara nasce in una famiglia contadina a Prato, dove vivrà tutta la sua vita, da genitori con un’istruzione elementare che coltivano un sapere da autodidatti. Il padre recitava la Divina Commedia a memoria e conosceva la letteratura italiana. Socialista anarchico, la sua tomba sarà meta di pellegrinaggio degli anarchici.

La madre, nata e formatasi a Castiglione dei Pepoli sull’appennino Tosco-Emiliano, doveva esprimersi negli ambiti e negli spazi a lei riservati in quanto donna quali il cucinare per cui Nara la descrive come ‘passionaria’, raccontandoci di come attraverso la scelta di come e cosa cucinare, la madre metteva in pratica un’idea etico pedagogica pensata e consapevole che risulta di incredibile attualità:

La mamma aveva ripreso molto dagli insegnamenti di questa zia nel curare noi e anche nell’alimentazione. Non dava mai da mangiare due volte di seguito la stessa cosa. Se faceva la pasta al sugo era una volta la settimana, perché due volte avrebbe fatto male. Frequenti erano le verdure cotte, non dovevano mai mancare sulla pietanza”.

Ma anche la scelta di lavorare fuori casa “a servizio” e dopo il matrimonio come lavandaia “perché a ‘Prato le donne hanno sempre lavorato’, e soprattutto l’educazione che impartiva alle figlie e al figlio, spazio dove le sue azioni divenivano vera e propria scelta politica e affermazione personale come il far fare la Comunione ai figli nonostante il parere contrario del marito e la scelta di come spendere i soldi guadagnati con il proprio lavoro:

Noi la Comunione l’abbiamo fatta nonostante il babbo anarchico. Mamma faceva tutte le cose di nascosto a lui. Non era una donna religiosa, però essendo stata serva si voleva integrare facendo le cose tradizionali. Di nascosto, perché mio padre diceva: ‘I soldi per queste cose non dobbiamo spenderli’. Ma mia madre faceva la lavandaia, e magari sottraeva dei soldi dicendo: ‘Ho guadagnato meno’”.

Dalle parole di Nara emerge forte e chiara la solidarietà della madre nei confronti delle figlie fatta di gesti e parole che hanno attecchito profondamente in lei che raccoglie questa eredità per rielaborarla attraverso la pratica femminista ed appropriarsene a un livello culturalmente articolato a cui saprà dare corpo con un lessico preciso che finalmente nominava il sentire e i vissuti delle donne.

La pratica femminista di Nara emerge proprio nella sua capacità di saper tracciare il filo rosso che la lega alle donne con cui è cresciuta, incluse le suore della scuola di Prato frequentata fino alla terza elementare. Considerando che da adulta Nara prenderà con risolutezza le distanze dalla Chiesa, il suo sguardo sulle suore e la relazione con queste donne che “delle volte la scelta di fare la suora non era stata nemmeno loro” travalica il dato autobiografico e diviene prassi culturale.

Nara cresce in una società fortemente patriarcale, autoritaria, gerarchica e ostile alle donne soggette ad aspettative e pressioni sociali che aggravavano la loro condizione e il senso di fatica causato da una mole di lavori fisicamente usuranti e oppresse dall’ombra del giudizio e dal controllo. Nara ci lascia un racconto dolcissimo della madre che evoca atmosfere e situazioni in cui la maggior parte delle donne può riconoscersi:

“La mamma (…) si alzava la prima ed era sempre l’ultima ad andare a letto”(…) Però aveva una bellissima abitudine. Il pomeriggio dopo pranzato rompeva la giornata con un pisolino. Mangiava e subito si appoggiava al tavolo e dormiva, diceva: 'Mi basta un minuto!'"

Un minuto, un solo minuto di spazio al giorno.

Nara cresce con i genitori nel podere Niccolini dove apprende i fondamenti della cultura contadina di cui ci lascia parole e pagine di straordinaria bellezza poetica. Di sé racconta di essere stata una “bambina fragile” e questa sua salute precaria le apre le porte per andare a Roma ospite di una zia paterna che frequenterà fino al 1938 quando poi non volle più tornare a Roma perché impaurita dalle prove di oscurità imposte da Mussolini per preparare la popolazione ai bombardameti.

Come la madre a servizio dalle famiglie borghesi, cosí Nara a contatto con l’ambiente fascista e borghese romano si confronta con una realtà sociale diversa e avrà modo di tornare a scuola e prendere la quinta elementare. Le parole d’ordine di questo suo periodo romano sono “contegno” e “decoro”.

A Nara veniva chiesto di avere “contegno”, sottointeso, quello di una femminilità borghese e di un ordine sociale eteronormato.

Recitò la sua parte senza mai piegarvisi

“(…) c’era una regola anche nel mangiare. Tu non potevi mica mangiare quello che volevi o come tu volevi. Dovevi tenere un contegno anche a pranzo e due bicchieri di vino erano una cosa sguaiata.”

Sempre in questo periodo soggiornerà in Eritrea allargando ulteriormente il suo sguardo e il suo bagaglio di esperienza, argute le pagine che raccontando il rapporto della zia con i gioielli di cui era cultrice, Nara coglie i condizionamenti di classe, la zia infatti indossava i monili acquistati nella colonia italiana solo in Eritrea perché a Roma non sarebbero stati adeguati al suo ambiente.

Rientrata a casa a Prato inizia a lavorare:

“Avevo la casa in collina, scendevo nel fiume e andavo dall’altra parte, dove abitavano gli amici di mio padre che facevano i tessitori artigiani e mi insegnavano a lavorare. Era l’unico lavoro possibile, perché gli altri mestieri della lavorazione tessile si facevano all’interno della fabbrica, mentre la tessitura era anche lavoro a domicilio”.

L'ingresso nel mondo del lavoro la introdurrà all’ alfabetizzazione politico-sindacale che procederà intrecciata a quella dell’autocoscienza femminista.

Nara, dopo aver attivamente preso parte alla Resistenza partigiana, partecipa sia nel sindacato che nel PCI portando e lottando per far valere le questioni rilevanti per le donne fino a quando prenderà atto che le priorità del partito e delle istituzioni erano altre e si dedicherà totalmente ai diritti delle donne in particolare delle vittime di violenza domestica e di quelle costrette ad abortire clandestinamente in condizioni igienico sanitarie gravissime e criminalizzate da una diffusa, radicata e ostinata mentalità misogina. Nel 1974 sarà una delle protagoniste della fondazione del Consultorio autogestito di Prato.

Sono gli anni della seconda ondata femminista, il dibattito è violento perché si contrappongono valori culturali profondamente distanti e una cesura culturale irreversibile.

Nara nel frattempo si sposa, ha due figli di cui uno a causa di un doloroso incidente subisce dei danni cerebrali che comprometteranno il suo pieno sviluppo. E passa attraverso una crisi matrimoniale che segna il punto di non ritorno nel suo processo di autonomia femminista.

Continuando a lavorare come artigiana tessile, fa il punto della situazione con la lucidità pragmatica dell’autodidatta che si è letteralmente e culturalmente smontata e rimontata a partire dal lessico, pilastro su cui si risignifica come artigiana tessile, madre e donna femminista.

Non è per caso quindi che il Centro contro la violenza alle donne di Prato sia intestato a lei.

Muore il 10 ottobre 1988.

Di lei rimane questa testimonianza biografica magistralmente curata da Maricla Boggio che attraverso il registro linguistico del parlato restituisce tutta la consistenza dell’intreccio fra un luogo, Prato, l’Italia e la formazione di una soggettività femminista.

A leggerla oggi si trova una capacità critica premonitrice di tanti nodi del presente. Mi fa piacere concludere questa pagina con le sue parole auspicando che stimolino ad approfondire la figura di un’artigiana femminista nel cui vissuto fatto di frustrazioni matrimoniali, solitudine, problemi economici, gestione dei figli, organizzazione domestica, si possono ritrovare tante donne:

“È il linguaggio ammaestrato della gente politica che parla parla, e dice pochissimo. (…) Poi ho cominciato a stufarmi di questi discorsi chilometrici, un bel giorno ho preso e ho portato la calza. Ho fatto questa riflessione: Ho una cultura mia, me l’hanno insegnata le suore quando ero bambina; è anche quello che loro si aspettano che io abbia, oppure vorrebbero che assumessi una cultura maschilista, il che non mi sentivo di fare. Io apro la borsa, tiro fuori la calza e mi metto a sferruzzare pacificamente. Tutti mi guardano con occhi stralunati. ‘Ma che fai, Nara?’ Dico: ‘Fo la calza. Intanto voi parlate, perché io non vi ascolto mica con le mani, vi ascolto con le orecchie. Seguo la discussione, però ho anche bisogno di rilassarmi, altrimenti con tutta questa confusione non ci intendo nulla.’”

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Nara Marconi

Maricla Boggio, La Nara. Una donna dentro la storia, Aracne 2017




Voce pubblicata nel: 2023

Ultimo aggiornamento: 2023