Maria Grandinetti nasce a Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro, il 27 agosto 1891, nona di undici tra fratelli e sorelle. Il suo talento innato viene notato dal pittore Andrea Cefaly quando ha solo otto anni:

La giovinetta diventerà senza dubbio una straordinaria pittrice da far onore alla Calabria e all’Italia. Quel che fa, lo fa per impulso proprio, essendo sempre vissuta in codesto piccolo paese ove non fu mai un pittore, né un’opera d’arte.
La sua è una famiglia borghese e benestante che non reprime le capacità precocemente emerse e le consente ‒ opportunità non scontata nei primissimi anni del Novecento ‒ di trasferirsi a Napoli, frequentare la scuola e iscriversi all’Accademia di Belle Arti. Gli anni della formazione saranno ricordati dall’artista come «anni di oscurità interiore», di «sottomissione assoluta alla sopraffazione esterna dei mezzi espressivi. Il mio mondo spirituale doveva trovare in se stesso una ragione di essere ed una soluzione. […] Mancanza di fiducia in me stessa».

A vent’anni Maria sposa l’avvocato Cesare Mancuso e con lui si trasferisce prima a Bari, poi a New York, infine a Roma che sarà dal 1912 la città della vita e della carriera professionale.
Il clima romano del secondo decennio del Novecento è vivace ed eterogeneo, sollecitato dalle forze innovative del Futurismo e stimolato dalle ricerche pittoriche internazionali è anche aperto nei confronti delle artiste che, numerose in questo scorcio di secolo, animano con le loro opere i piccoli e grandi spazi espositivi. Maria è tra loro una delle più dotate.

Notata nel corso di una mostra personale del 1914 dal pittore, scultore e critico Roberto Melli «per l’inaspettata qualità» dei dipinti esposti, Grandinetti Mancuso ha modo, forse grazie all’interessamento dello stesso Melli, di partecipare alla Terza Esposizione Internazionale d’Arte della “Secessione” al Palazzo delle Esposizioni e, tra il dicembre del 1916 e il gennaio 1917, alla quarta edizione.
Annoterà successivamente di essere giunta in quegli anni all’intuizione di «due grandi verità pittoriche: 1) il colore in sé come verità pittorica. 2) La sostanza delle cose come verità pittorica». Al buio interiore degli anni della formazione artistica, ora Grandinetti Mancuso contrappone «Ribellione – Negazione di tutta la sapienza dei mezzi espressivi appresi a scuola – Volontà assoluta di rifarmi la purezza interiore soffocata dai mezzi inadatti ad esprimerla […] Rivoluzione di colori e forme».

Per la pittrice l’arte non è piatta adesione a formule, ma ricerca personale costante e urgente e già nel 1918, con le opere presenti alla Mostra d’arte Indipendente pro Croce-Rossa nella galleria romana L’Epoca, rivela la sua evoluzione rispetto all’esperienza della “Secessione”. Si trova a esporre accanto a Carlo Carrà, Giorgio de Chirico, Enrico Prampolini, Ardengo Soffici, solo per citarne alcuni, «un gruppo di giovani […] ‒ si legge nel catalogo ‒ perfettamente persuaso che l’arte debba essere nella disciplina e nell’ordine, […] ugualmente distante dalla senilità dell’accademismo che dalle trepidanti invenzioni del futurismo […]». Il ritorno all’ordine di Maria Grandinetti corrisponde a forme di «espressionismo plastico», come lo definisce Melli per il quale la pennellata appare «meno agitata […] il colore assume tono e architettura» mentre il volume è «inteso come lo intende la natura italiana, tutto corpo e sostanza, […] vere e proprie sintesi plastiche […]».

La misura del giudizio favorevole intorno a lei si può trovare tra le pagine del primo numero di Valori plastici, la rivista fondata da Mario Broglio dove, tra le poche immagini scelte a corredo del fascicolo del 15 novembre 1918, viene presentato il suo quadro Casolare, un paesaggio «dall’architettura “essenziale” e dalla “plastica piena e nuda” […]».

Gli anni Venti, al contrario dell’effervescenza del decennio precedente, sono per la pittrice anni di distacco dagli appuntamenti espositivi romani, forse una necessità di riflessione personale, una forma di ripensamento dei mezzi espressivi e dei percorsi della propria arte. L’inquietudine personale unita alla concezione della pittura come esperienza esistenziale e ricerca continua spingono l’artista a scrivere nel 1925

Credo che se verrà un giorno in cui potrò fare a meno di dipingere sarò felice; perché credo che la mia inferiorità stia nel non poter fare a meno di fare ciò.

Il ritorno sulla scena artistica pubblica si ha a partire dal 1930, in occasione della mostra personale organizzata al Circolo della Stampa Estera. Il lungo periodo di autoesclusione ha sbiadito il ricordo di quanto realizzato in precedenza e per alcuni critici il ritorno di Maria Grandinetti ha il sapore di una scoperta, quasi fosse un’esordiente, come scrive il critico Corrado Pavolini: «Quest’artista, che ci era finora del tutto ignota, merita molta attenzione per la forza, rara in una donna […]». In questa occasione vengono presentate due monografie su di lei, una in italiano curata da Mario Recchi e Roberto Melli e una in tedesco a firma di Italo Tavolato; l’anno successivo esce la versione francese firmata da Giuseppe Ungaretti, nel ’33 quella in inglese.

Sono numerose le mostre a cui partecipa durante gran parte degli anni Trenta, dalle quelle personali (compresa una alla Galerie Rosemberg di Parigi nel 1931) a quelle collettive, passando per le manifestazioni ufficiali come la Quadriennale d’Arte Nazionale o le esposizioni promosse dal regime. Critica e pubblico la seguono favorevolmente, la sua è diventata una pittura originale e autonoma, non facilmente riconducibile ad altre forme espressive. Grandinetti Mancuso dimostra uno sviluppo cromatico intenso e consapevole che Ungaretti definisce «un lunghissimo viaggio sul fiume degli occhi. Innanzi tutto ha imparato che il colore è una mirabile apparizione».

Il senso plastico delle forme, l’equilibrio che queste raggiungono attraverso un lavoro di meditata sottrazione dei particolari, la sintesi di spaesante e “silenziosa” rarefazione cui giunge rendono i temi del paesaggio, del ritratto e delle nature morte, sempre a lei cari, realtà immote, quasi magiche.

Il lungo e intenso periodo di lavoro e riconoscimenti arriva fino agli anni della guerra, poi comincia una sorta di crepuscolo e al momento della rinascita del dopoguerra Maria Grandinetti lascia la pittura. L’ultima personale si tiene alla Galleria di Roma nel 1945, in seguito la partecipazione a mostre collettive sarà sempre più diradata. L’Associazione Bottega d’Arte Contemporanea (divenuta in seguito la Bottega d’Arte Internazionale Contemporanea, BAIC) e la rivista Arte Contemporanea. Periodico mensile di tutte le arti, da lei fondate nel 1947, la assorbono in modo quasi totalizzante fino al 1968.
Soprattutto la rivista la vede protagonista unica e inquieto motore propulsore, quasi la sua fosse una “missione”. Dai temi propri dell’arte spazia verso tematiche meno attinenti come la pace universale su cui convergono la sua profonda fede, l’interesse verso lo studio comparato di altre religioni e la personale passione per le discipline filosofiche.

A partire dal 1971 gravi problemi familiari e di salute la costringono a una vita in solitudine; infine il ricovero nell’ospedale psichiatrico romano di Santa Maria della Pietà, dove muore il 26 aprile all’età di 86 anni.

Di Maria Grandinetti Mancuso hanno scritto molti artisti, critici e intellettuali del Novecento, da Alberto Savinio («[…] la pittrice del miracolo […] è sola, come il boscaiolo in mezzo alla foresta, e dipinge con la tenacia stessa del boscaiolo che attacca il tronco con la scure») a Carlo Carrà che ne sottolinea «un vivo desiderio di scavare oltre la corteccia delle cose […]»; da Cipriano Efisio Oppo («un’artista indipendente, ossia fuori dalle solite incasellature, ossia originale») a Roberto Melli («la più forte pittrice italiana»), da Giuseppe Ungaretti o Guido Piovene.
Nei positivi giudizi che si susseguono i critici hanno utilizzato in più occasioni linguaggi e formule declinate al maschile come «Dipinge da uomo […]», hanno posto l’attenzione sulla sua forza creativa ai loro occhi «rara in una donna», sul talento sviluppato «disdegnando tutte le piacevolezze della femminilità “suggestiva”» e mai ricorrendo «alle solite leziosità sentimentali delle pittrici dilettanti».
Nonostante ciò, per usare una felice espressione coniata per lei ma che potrebbe valere per molte altre artiste, col tempo se ne «è consumato il ricordo», fino quasi a farlo scomparire.

La “riscoperta” comincia nella seconda metà degli anni Settanta. Il suo nome viene inserito da Simona Weller nel libro Il complesso di Michelangelo. Ricerca sul contributo dato dalla donna all’arte del Novecento ed è presente in una mostra sul contributo femminile all’arte del XX secolo alla Galleria Giulia di Roma; successivamente le viene dedicata una scheda nel volume L’altra metà dell’Avanguardia 1910-1940 di Lea Vergine.
Nel 1993 il Comune di Roma le ha intitolato una via.

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Maria Grandinetti Mancuso

Francesca Lombardi Maria Grandinetti Mancuso, pittrice romana. Dalla "secessione" al secondo dopoguerra, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.
Monica Grasso, Maria Grandinetti Mancuso, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 58, pp. 521-523, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2002.
Francesca Lombardi, Maria Grandinetti Mancuso. Un «lunghissimo viaggio sul fiume degli occhi», in Artiste a Roma. Percorsi tra Secessione, Futurismo e ritorno all’ordine, catalogo della mostra 14 giugno – 6 ottobre 2024, Roma, Museo di Villa Torlonia, Casino dei Principi, De Luca Editori d’Arte, pp. 68-72.

Referenze iconografiche
1. Maria Grandinetti Mancuso, anni Venti, Archivio Maria Grandinetti Mancuso, Roma
2. Maria Grandinetti Mancuso, Astrazione di natura morta, 1919 -24, Collezione F. Lombardi, Archivio Maria Grandinetti Mancuso, Roma
3. Maria Grandinetti Mancuso, Indiana, ante 1934, Collezione G. Lombardi, Archivio Maria Grandinetti Mancuso, Roma




Voce pubblicata nel: 2024

Ultimo aggiornamento: 2024