Gaetana (Ketty) La Rocca è nata a La Spezia il 14 luglio 1938, da Michele La Rocca ed Elvira Masini. In seguito alla morte del padre, ufficiale dell’esercito deceduto nel 1947, si trasferisce con la madre e la sorella prima a Roma, poi a Livorno, ad Aulla e infine a Spoleto, dove consegue nel 1956 il diploma magistrale.
Assistente in uno studio di radiologia, La Rocca si trasferisce dunque a Firenze, un passo decisivo per la vita personale e artistica. Qui sposa Silvio Vasta, dal quale ha un figlio (Michelangelo), vince un concorso per l’insegnamento nelle scuole elementari, ed entra in contatto con il Gruppo 70, l’avanguardia artistica fiorentina animata da Miccini, Ori, Pignotti, Marcucci, fondatori della “poesia visiva”.
In questo effervescente clima culturale, le riflessioni filosofiche ed estetiche tendono a convergere su un nucleo ben definito: il linguaggio, quel linguaggio che mass media, pubblicità, e tecnologia hanno profondamente condizionato. A questo primo periodo (1964-65) corrispondono alcuni importanti collages, tra i quali sono da ricordare Sana come il pane quotidiano e Vergine, che attraverso il sapiente e provocatorio accostamento di immagini e parole, mostrano e indagano la mercificazione del corpo femminile nella società dei consumi.
Altri temi molto importanti sono la guerra in Vietnam e il ruolo della chiesa nella politica e nella morale, temi che prorompono con forza in una versione della famosa Bianco napalm, del 1967.
Degno di nota anche l’unico testo teatrale dell’artista, La storia che ha commosso il mondo, pubblicato nel 1970 sulla rivista «Tèchne» di Miccini. Si tratta di un testo che, nato in seno alle avanguardie artistiche coeve, mette in scena il linguaggio e la comunicazione nell’epoca dei mass media, rielaborando moltissimi temi cari all’artista, come l’invasione della pubblicità nell’intimità delle case, la centralità delle merci nella vita degli uomini, la difficoltà di comunicare in un mondo connesso dai mezzi di comunicazione, il ruolo della donna e del suo corpo. A proposito di quest’ultimo aspetto, discutendo con l’amica e fotografa Verita Monselles, l’artista sottolinea come l’aspetto decorativo della sua arte (il gran numero di simboli e segni presenti nei suoi lavori) nasca proprio dal suo essere donna:
“è la mia origine, è il mio retroterra culturale! Sono una donna […], così ho tutti questi orpelli che mi porto dietro”,
legando così la creazione estetica alla vita, a esperienze e suggestioni personali.
Ketty La Rocca prosegue la personale ricerca attorno al linguaggio anche in altre forme, ed anche al di fuori del Gruppo 70. Alla fine degli anni ’60 le lettere e i segni di punteggiatura che erano apparsi nei lavori precedenti prendono corpo, divengono elementi autonomi, vere e proprie sculture in pvc. Dal linguaggio che si fa corpo al corpo che si fa linguaggio. Nel 1971 Ketty La Rocca pubblica il libro In Principio Erat (con prefazione di Gillo Dorfles) dove, riprendendo l’incipit evangelico e proponendo fotografie delle proprie mani che eseguono gesti diversi, sembra quasi voler riscoprire e rifondare il linguaggio istintuale, protagonista anche del video Appendice per una supplica (1972), entrambi presentati alla XXXVI Biennale di Venezia.
Il corpo e il linguaggio (e il corpo che si fa linguaggio) è protagonista anche dell’ultima serie dell’artista. Infatti, conscia della malattia che l’avrebbe di lì a poco condotta alla morte, realizza le Craniologie, delle radiografie del proprio cranio recanti delle sovrapposizioni fotografiche delle mani, esplorando così i rapporti e i confini tra linguaggio, corpo e identità.
Quest’ultimo periodo di attività è intenso e febbrile, come dimostrano due lettere datate 1975. Nella prima, spedita in estate come risposta ad una cartolina della critica Lucy Lippard, La Rocca descrive alla statunitense il proprio lavoro ripercorrendo le opere cruciali della propria carriera artistica e allegando libri e fotografie, chiudendo poi con una amara constatazione:
“Ancora, in Italia almeno, essere una donna e fare il mio lavoro è di una difficoltà incredibile”.
A questa lettera, Lippard replica entusiasta, sottolineando di essere stata colpita dall’aspetto estremamente personale del suo lavoro, dal modo in cui esso sembra nascere da un bisogno profondo e da una intensa riflessione, ascrivendolo poi alla corrente della conceptual art. Inoltre, riflettendo sulla condizione delle artiste nel mondo dell’arte, la critica afferma che le donne sono particolarmente adatte a reinvestire nell’arte significati che provengono dal loro io piuttosto che dalla moda, proprio a causa dell’isolamento in cui sono costrette ad operare. La seconda lettera, degli ultimi mesi dell’anno è indirizzata a Maria Gloria Bicocchi, che a Firenze aveva fondato uno dei primi archivi di videotapes in Italia, Art Tape 22, ci testimonia un’artista che fino agli ultimi mesi di vita ha dedicato le proprie energie all’esplorazione di nuovi progetti e alla diffusione della propria arte.
Ketty La Rocca muore il 7 febbraio 1976. La sua fortuna è in continua crescita, come dimostra il numero di pubblicazioni e di mostre nazionali e internazionali a lei dedicate, che la riconoscono, ormai, come una delle artiste concettuali italiane più importanti del secolo scorso.
Raffaella Fontanarossa, Ketty La Rocca, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 63 (2004)
Simone Marsi, Perdersi dentro casa. La storia che ha commosso il mondo di Ketty La Rocca, in “Arabeschi”, n. 15, 2020, pp. 127-138
Lucilla Saccà (a cura di), Omaggio a Ketty La Rocca, Pisa, Pacini 2001
Francesca Gallo, Raffaella Perna (a cura di), Ketty La Rocca, nuovi studi, Milano, Postmedia books 2015
Referenze iconografiche: Ketty La Rocca, Virgole, 1970. PVC. MOCA. Foto di Rob Corder. Fonte: Flickr. CC BY NC 2.0
Voce pubblicata nel: 2020
Ultimo aggiornamento: 2023