Per diventare Katherine Mansfield la piccola Kathleen Mansfield Beauchamp impiegò tutta la sua breve e intensa vita, continuando a usare una miriade di nomi, ognuno dei quali legato a uno stato d’animo, a una relazione, a una percezione dell’essere. Così in Katherine convivevano Kass, Katie, K.M., Mansfield, Katherine, Julian Mark, Katherine Schönfeld, Matilda Berry, Katharina, Katiushka, Kissienka, Elizabeth Stanley e infine Tig, la tigre sposata con John Middleton Murry.
Nata in una famiglia dell’alta borghesia di Wellington - genitori, un fratello, tre sorelle, una zia e una nonna - visse un’infanzia agiata e colma di meraviglia che diventerà forse l’unico centro della sua vita e la fonte stessa dell’ispirazione artistica. L’infanzia sarà trasfigurata, mai declinata al passato, ma sempre raccontata in un eterno presente. Le piccole protagoniste Lottie e Kenzia di Preludio ogni giorno traslocano nella nuova casa, il sole della baia di Crescent sorge in eterno e Bertha Young in Felicità, continua a scintillare all’unisono con il suo piccolo, perfetto mondo, simboleggiato da un pero fiorito che, alla fine, sarà anche il simbolo della finzione e delle maschere dietro cui la vita vera si nasconde.
Ma come fu la vita di Katherine? Di certo una vita dolorosa, solitaria, audace e anti-conformista, segnata dall’esilio e dalla malattia e da un desiderio mai esaudito di un focolare domestico, di una vita da donna come tutte le altre; una vita segnata dalla contraddizione, poliedrica e febbricitante. «Ho sempre avuto una furia isterica di vivere, l’isteria è una grande ispiratrice. Detesto le ore grigie, amo i giorni che passano all’orizzonte come nubi di tempesta». Fu una scrittrice perseguitata dalle furie, come scrive una delle sue biografe Claire Tomalin. E fu anche «Un essere segreto fino in fondo a me stessa» come scriveva all’amica di tutta la vita Ida Baker.
Lasciò la Nuova Zelanda una prima volta nel 1903 per andare a Londra a completare gli studi.
Scrisse nel suo diario durante il viaggio «Indipendenza, risolutezza, uno scopo fermo, il dono della discriminazione, chiarezza mentale. Ecco le doti indispensabili». Ma le furie non le permisero altro che il dono della chiarezza e la costrinsero a non potersi fermare in nessun luogo. Completati gli studi al Queen’s College fece ritorno in Nuova Zelanda solo per scoprire che non poteva più vivere nella terra natale.
Proprio in quella fase della sua vita scoprì la sua vocazione di scrittrice. Il ritorno a Londra nel 1908 fu l’inizio della sua vita bohémienne. Una relazione amorosa appassionata la legò al giovane musicista Garnet Trowell, ma venne osteggiata dalla famiglia di lui. Troncata questa storia d’amore, in maniera precipitosa, e anche misteriosa, si unì in matrimonio con il maestro di canto George Bowden, maggiore di lei di undici anni. Il matrimonio durò soltanto un giorno e subito dopo la madre di Katherine, Annie Beauchamp, la condusse in Baviera anche con la speranza di interrompere la relazione amorosa con Ida Baker. I racconti della raccolta In a German Pension, nascono da quel soggiorno ma anche dall’incontro con i libri di Anton Cechov, l’unico scrittore con il quale forse si confrontò per tutta la vita. La pubblicazione del primo libro la fece entrare in contatto con la rivista letteraria «Rhythm» dove incontrò l’uomo più importante, il futuro marito, biografo e curatore letterario, il critico e scrittore John Middleton Murry. La loro relazione attraversò fasi altalenanti, fu costellata di grandi distacchi durante i quali l’amore ardeva più forte e i progetti per il futuro comune si moltiplicavano. Quando lei iniziò a soggiornare in Costa Azzurra a causa dei problemi polmonari, scriveva a John di Villa Pauline a Bandol dove risiedeva: «Se tu verrai, ho trovato per noi, una minuscola villa che mi pare, a suo modo, quasi perfetta. È isolata, in un piccolo giardino a terrazze, è esposta a mezzogiorno e prende il sole da mattina a sera. Ha una veranda di pietra e una piccola tavola rotonda dove possiamo sederci per mangiare e lavorare. Una graziosa piccola cucina con pentole e padelle e un grande bricco per il caffè».
Quello trascorso a Villa Pauline fu il periodo più felice della sua vita, al punto che anni dopo scrive in una lettera a un amico «Quando scrivo mi sento così vicina al mio io-scrittore, al mio “Pauline” io-scrittore...». È proprio in quel primo soggiorno che Katherine scrisse alcune delle sue pagine più belle, tra cui Preludio, il racconto che verrà poi pubblicato dalla Hogarth Press, la casa editrice di Virginia Woolf. È John a sottolineare che Katherine, nel suo continuo scrivere lettere, era una donna innamorata non solo del marito ma di tutti, una donna in profonda connessione con la bellezza e il dolore del mondo, con la disperazione e la speranza che mai veniva meno. Il dolore fu per la Mansfield la strada per giungere a una più chiara visione e una più piena accettazione della vita.
«Bisogna sottomettersi. Non resistere. Accogliere il dolore. Essere come sommersi. Accettarlo pienamente. Farne parte della propria vita... Nella vita, qualunque cosa venga realmente accettata, subisce poi un mutamento.»
Il dolore e l’esilio furono la sua condizione esistenziale, il marito così ne scrisse nel lungo ritratto che le ha dedicato nel suo libro Katherine Mansfield and other literary portraits «Viveva in esilio dal paese natale e questo è un fatto materiale. Ricreò il paese natale e questo è un fatto spirituale. Il paese che lei ha ricreato non è però la Nuova Zelanda, ma un paese universale, la terra dell’innocenza, quella cui tutti gli spiriti aspirano. Cercava una casa: ma quello che non trovò in Nuova Zelanda non riuscì a trovarlo in nessun altro paese al mondo o forse lo ha trovato in tutti. Per lei casa significava la sicurezza dell’amore di “essere in una qualche via per la pace, colma di felicità”».
Negli anni in cui cercava la propria voce di scrittrice, ebbe il privilegio di conoscere e frequentare alcuni tra i più grandi scrittori e pensatori inglesi dell’epoca. Oltre a Elizabeth Von Arnim, sua cugina, fu legata da profondi rapporti di amicizia con D.H. Lawrence, Bertrand Russel, Lady Ottoline Morrel e Virginia Woolf. Nel 1916, all’inizio della loro frequentazione, la Woolf restò scioccata dalla maniere allo stesso tempo dure e ordinarie della Mansfield e la trovò «sgradevole, ma energica e totalmente prIva di scrupoli», come riporta la Tomalin nella biografia di Katherine che invece ne è fatalmente attratta: «L’amo infinitamente... Ho sentito per la prima volta l’estranea, fremente, scintillante qualità del suo spirito – e per la prima volta ho avuto l’impressione di incontrare una di quelle donne di Dostoevski, la cui innocenza è stata ferita» scrive all’amica comune Ottoline. Quando nell’agosto del 1917 Katherine raggiunge Virginia nella residenza di Asheham, le due scrittrici fanno una lunga passeggiata in collina, contemplando i cardi, le farfalle e gli aerei che solcano il cielo... Dopo la visita Katherine scrisse una lunga lettera di ringraziamenti, dove esaltò le qualità della Woolf e sottolineò le ambizioni simili che entrambe nutrivano nei confronti della letteratura e nella loro vita di scrittrici. Nel 1918 durante un soggiorno a Mentone, il ritorno a Villa Pauline è fonte di una tremenda disillusione. Tutto è cambiato, il tempo è tremendo, nessuno la riconosce. La malattia è ormai conclamata e la trascina verso la morte implacabile come “un enorme uccello nero”. Nel maggio dello stesso anno finalmente Katherine e John si sposano e continuano le peregrinazioni da un paese all’altro cercando sia la salute che una maggiore profondità e pienezza della scrittura. Nelle pagine bellissime che le dedica nel suo libro Da una stanza all’altra così scrive Grazia Livi: «La chiave di volta del suo lavoro è l’esperienza. L’esperienza intesa come contatto immediato col reale. Sentita alla stessa maniera dei poeti: non tanto per il contenuto in sé, quanto per la sua indicibile qualità, che è spia folgorante e elusiva della profondità della vita. Anche lei, come Joyce, come la Woolf, aspira ad afferrarla, elaborando un sentimento del momento di essere, o del momento reale. Ma con una differenza. Il momento della Mansfield non ha una tonalità concettuale, né spirituale, ma solo intuitiva, e vuole esprimere solo una sorta di adesione pura, un puro trasferirsi nell’altro e nella situazione, con assoluta sincerità, con assoluta limpidità».
«Senza emozione la scrittura è morta» sentenzia in una recensione nella rivista «Athenaeum» Katherine stessa. Ma cosa significava scrivere per lei? A più riprese annotava nel diario che scrivere significava riportare in vita il fratello morto in guerra, salvare dall’oblio l’infanzia comune, adempiere «a un dovere verso quel tempo felice... quando eravamo vivi tutti e due... adesso desidero scrivere del mio paese fino al completo esaurimento dei miei mezzi... ho bisogno di tenere una specie di diario minuto da pubblicare un giorno. Non romanzi, non racconti a tesi, nulla che non sia semplice e chiaro... Sento il mio lavoro come una passione: è la mia religione, il mio mondo, la mia vita». Il suo scrivere era luminoso, la sua intenzione di cogliere il momento, riuscita. Di certo i suoi racconti risentono dell'influenza di Cechov che lei tradusse lungamente, al punto che una sua traduzione di un racconto inedito venne pubblicata come se fosse un suo racconto originale. Ma la tensione e la concentrazione, la capacità di raccontare con poche immagini un luogo come fosse una persona, uno stato d'animo come un temporale sono solo suoi. La Mansfield aveva un dono originale che anche Virginia Woolf le invidiava: i suoi personaggi sono vivi, i dialoghi brillanti, le descrizioni vivaci. E tutto il suo tessuto narrativo è così personale che anche Pietro Citati nel suo famoso libro Vita breve di Katherine Mansfield, attinge a piene mani dalla sua scrittura per creare il personaggio Mansfield.
I successivi soggiorni in Cornovaglia, a Ospedaletti, a Mentone e poi di nuovo Londra fruttano i nuovi racconti Felicità, La giornata di Reginald Peacock, Istantanee, Je ne parle pas français, Veleno. Nel 1920 esce Felicità, il secondo libro di racconti ma non ne è contenta. A Mentone, Villa Isola Bella, è più rilassata e fiduciosa nei propri mezzi e nella possibilità di una guarigione.
Ancora la Livi sottolinea: «La verità è che la creatività, per affiorare, ha bisogno di un presente privo di tensioni, fatto di maglie lunghe e invarianti».
Nel 1921 è di nuovo in Svizzera con il marito in una realizzazione del suo caldo sogno domestico che Villa Pauline aveva provvisoriamente incarnato. Ma è di nuovo un’illusione, uno stato momentaneo dell’essere. Nel 1922 si recò a Parigi per provare una nuova terapia e lì entrò in contatto con Gurdjeff e fu attratta dalla sua dottrina esoterica. Lo raggiunse a Fontainebleau dove incontrò anche la vedova di Cechov. Lì risiedeva nella stanza piccola e fredda che le era stata destinata e trascorse molte ore nella stalla a respirare l’alito delle mucche che vi erano ricoverate. Non si lamentò, non desiderò null’altro che essere lì a osservare la nuova realtà che la circondava. Tra le ultime parole che scrisse in russo su un taccuino che sempre l’accompagnava leggiamo: carta, cenere, legna. Così come il ciclo della carta che nasce dal legno e finisce in cenere, Katherine Mansfield brillò nelle sue ultime ore e si spense all’improvviso la sera del 9 gennaio 1923. Al suo funerale c’erano solo il marito, le sorelle, Ida e Orage, il suo primo editore.
L’epitaffio sulla sua tomba è una citazione dall’ Enrico IV di Shakespeare: «Ma io vi dico, mio sciocco signore, che da questa ortica, da questo rischio, cogliamo il fiore della sicurezza».
Katherine Mansfield, Epistolario, Il Saggiatore 1971
Grazia Livi, Da una stanza all’altra, Garzanti 1984
Claire Tomalin, Katherine Mansfield, a secret Life, Viking 1987
Pietro Citati, Vita breve di Katherine Mansfield, Rizzoli 1980
Kathleen Jones, Katherine Mansfield: the Storyteller, Penguin 2010
Referenze iconografiche: Kathrine Mansfield nel 1912. Fonte: http://www.katherinemansfield.net/life/briefbio1.htm. Immagine in pubblico dominio.
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023