Si elargirono a Roma due gran doni / Marte le die’ l’impero, Venere Imperia.
Esercitavano lo stesso, identico mestiere, le cortigiane romane, ma non erano tutte uguali. Al tempo di Leone X risultavano sommariamente divise in due categorie: le “oneste”, ovvero ricche, di alto livello sociale e intellettuale e quelle “da candela”, che indicavano la durata della loro prestazione con una tacca incisa nella cera, che corrispondeva poco più, poco meno, a mezz’ora. Lavandaie, cucitrici, tessitrici, fantesche, ambulanti che non riuscivano a vivere col solo guadagno del loro lavoro erano costrette a integrarlo, prostituendosi. Un vero e proprio esercito di donne, ora dentro, ora fuori dal “mestiere”, duramente impegnate sia ad accattare clienti tra gli strati infimi della popolazione, sia a evitare i balzelli di un fiscalismo occhiuto e feroce. Pietro Aretino, esperto conoscitore della categoria in tutte le sue accezioni, dimostra, in proposito, sguardo lungo e una discreta sensibilità sociale: “per una che si sappia torre dei campi al sole, ce ne sono mille che muoiono nello spedale” (Sei giornate). Anche la saggezza popolare dei proverbi conferma il triste destino assegnato alle prostitute: “Tre specie di persone finiscono male: i soldati, le puttane e gli usurai” suona un modo di dire diffuso in Italia come in Spagna durante tutto il XVI secolo, confermato dal toscano “Non c’è puttana che non muoia di fame”.
Imperia, invece. La più famosa cortigiana del Rinascimento romano era bella, ammirata, desiderata, dotata di straordinario fascino e del potere che le derivava dagli uomini a cui si accompagnava: uno per tutti il senese Agostino Chigi (1465-1520), detto – pure lui! – il Magnifico, banchiere di papi, costruttore della Farnesina, munifico mecenate di letterati e artisti. Imperia segna della sua personalità la fase ascendente del Rinascimento romano. Nata nel rione di Borgo il 3 agosto 1486 da una cortigiana di modesto profilo, Diana Corgnati, e da Paris de Grassis, cerimoniere pontificio, ne fu cantata la straordinaria bellezza: “bianca e spaziosa la fronte, incoronata da capelli color dell’oro, sottile il collo e ampi e deliziosi i seni”. Modella – e quasi per certo amante – di Raffaello Sanzio, che probabilmente la raffigurò nelle fattezze di Galatea nell’affresco che si trova alla Farnesina, conversatrice brillante e autrice di versi non disprezzabili, “si dilettava de le rime volgari” e “non insoavemente componeva qualche sonetto o madrigale”. Un’abilità appresa alla scuola dello Strascino, ovvero il letterato originario di Siena Niccolò Campani, autore di rime giocose – di gran moda nella Roma dei primi anni del Cinquecento – poeta mediocre, ma capace di impartire alla giovane una raffinata educazione umanistica. Cortigiana tra le più celebrate, si poteva permettere di abitare in una residenza simile a una reggia nei pressi della locanda dell’Orso, uno dei quartieri più ricchi della città. “Era una casa apparata et in modo del tutto provvista, che qualunque straniero in quella v’entrava, veduto l’apparato e l’ordine de servidori, credeva ch’ivi una principessa abitasse. Era tra l’altre cose una sala et una camera et un camerino sì pomposamente adornati, che altro non v’era che velluti e broccati, e per terra finissimi tappeti. [...] In sur una ricca sedia vi era una bella e vaga giovinetta di età di anni diciotto, quale era vestita di ricchissime veste, con un numero infinito di pontali d’oro e gruppi di perle. [...] E perché tutte le cortigiane di Roma, specialmente quelle che sono di qualche valore, sogliono stare in casa per lo manco con due fanti [...] quelle fanti tutte preste apparecchiorno nella ampia sala una ricca tavola con molte preziose vivande e finissimi vini”: così scrive Matteo Bandello che l’amò, come pure il vescovo Iacopo Sadoleto, il bibliotecario del papa e organizzatore di eventi teatrali Tommaso Inghirami, il poeta licenzioso Bernardino Cappella, Camillo Porcari, Antonio Lelli, il letterato umanista Angelo Colocci, Filippo Beroaldo junior che animarono il sofisticato circolo artistico-letterario che si ritrovava nelle sue suntuose dimore. Imperia, però, non era felice. Innamorata, infatti, di un nobile romano, Angelo Del Bufalo, non poteva sposarlo perché l’uomo era già legittimamente coniugato. E allora, dopo l’ennesimo litigio con l’amante, decise di uccidersi, assumendo un veleno mortale: a nulla valsero le cure dei medici più famosi di Roma fatti giungere al suo letto dall’antico protettore, Agostino Chigi. Dopo due giorni di una dolorosa agonia, Imperia morì: una vicenda tragica che colpì l’immaginario popolare al punto che i cantastorie la celebrarono a lungo per le strade di Roma intonando una tarantella intitolata Il lamento di Imperia mandato dall’inferno in questo mondo attribuita a Giuliano Ceci. Pietoso della sua vicenda fu addirittura il terribile Aretino che di lei scrisse che “morì bene, ricca, e in casa sua e onorata”.
Così il poeta Giano Vitale la piange nell’Imperiae panegyricus:
Si elargirono a Roma due gran doni Marte le die’l’impero, Venere Imperia. Morte e Fortuna ostaron, e portò via Fortuna impero, Imperia Morte Pianser l’impero i padri, noi questa piangemmo. Quelli l’impero, noi abbiamo perso il cuore.
Marte le die’l’impero, Venere Imperia.
Morte e Fortuna ostaron, e portò via
Fortuna impero,
Imperia Morte
Pianser l’impero i padri,
noi questa piangemmo.
Quelli l’impero, noi
abbiamo perso il cuore.
Sepolta in una bellissima tomba rinascimentale voluta da Agostino Chigi, nella chiesa di San Gregorio al Celio, di lei restò, per oltre un secolo, solo il ricordo offerto da un’elegante iscrizione latina che tradotta suonava così: “Imperia, cortigiana romana che, degna di così gran nome, offrì un esempio di bellezza raro per il genere umano. Visse ventisei anni e dodici giorni e morì nell’anno 1512, il 15 agosto”. Un congedo dal mondo semplice e decoroso e una sistemazione post mortem adeguata alla fama e all'importanza sociale di Imperia.
Ben diverse le tombe delle cortigiane povere, quelle “da lume”, “da gelosia”, “da impannata”, “della miglior parte”. Di loro sono rimaste scarse tracce: qualche soprannome, rari nomi propri e la memoria di un luogo macabro, un campo abbandonato vicino al Muro Torto, una fossa comune dove queste donne venivano sepolte quando morivano se riconosciute come prostitute: il cimitero delle puttane. “Le meretrici a causa del loro distinto genere di vita” scrive lo Sprengerus in Roma nova “godettero da secoli e godono tuttora d’un distinto luogo di sepoltura presso la porta Flaminia detta del Popolo. È uno spazio angusto da far meravigliare come possano capircene tante migliaia. Se rinsavirono prima di morire, monacandosi o andando a marito, vengono esentate dall’ignominia di tale sepoltura.”
Delumeau Jean, Vita economica e sociale a Roma nel Cinquecento, Sansoni editore, Firenze 1979
Larivaille Paul, La vita quotidiana delle cortigiane nell'Italia del Rinascimento, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1983
Luciani Luciano, Le donzelline. Donne d'amore nell'Italia rinascimentale,
ETS, Pisa 2014
Voce pubblicata nel: 2018
Ultimo aggiornamento: 2023