Un percorso che attraversi la poesia delle donne lucane dal punto di vista dell’autobiografismo e della condizione femminile non può non includere Giuliana Brescia, nata a Rionero in Vulture, il 21 febbraio 1945, da Antonio e da Violante Vorrasi, e spentasi suicida l’11 luglio 1973 a Bari, dove viveva col marito e la figlia Nadia Amanda.
Appena dodicenne iniziò a redigere con il fratello Sergio “Il Formicaio”, un ciclostilato letterario che restò in vita per 5 anni. Nel 1962 a Napoli le fu assegnato il Premio letterario “La Maschera d’Oro” (Giuria presieduta da Vittorio De Sica); nel 1969 e nel 1971 ha ricevuto il Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, con Tele di ragno e con Brano di diario. Giuliana Brescia ha pubblicato Canovacci di racconti che non scriverò, Napoli, 1968, Lettere di un soldato, Napoli 1969, Tele di ragno, Cosenza 1969, Brano di diario e altre poesie, Cosenza 1970. Postume sono state pubblicate le sillogi Poesie del dubbio e della fede, Napoli 1974, Versi affiorati dai cassetti, Venosa 1986. Appena pubblicate le “Poesie del dubbio e della fede”, ancora vivissimo il trauma della tragica morte di Giuliana Brescia, Anna Santoliquido, sua biografa, così ne sintetizzò il percorso di vita: “Giuliana è nella sfera degli eletti. Breve il ciclo della vita, ma intenso il rapporto con l’arte”.
La poesia delle scrittrici lucane, che idealmente rimanda ai modelli originari di Isabella Morra e Aurora Sanseverino, segue percorsi molto diversi; alcune, infatti, pur con qualche inquietudine e tensione critica, si rivolgono alle tematiche femminili attingendo e rimanendo dentro una visione tradizionale del ruolo delle donne, riferendosi anche a modelli poetici maschili consolidati, altre affrontano il loro ruolo come trasgressione e fuga rispetto ai cliché della società borghese, che ha fagocitato i riti di una socialità contadina molto rimpianta ed evocata, non solo recuperata nella sua autentica identità legata alla terra, ma anche come fonte di persistenti pregiudizi e stereotipi contro cui schierarsi.
Le poesie di Giuliana Brescia denunciano ansie, angosce, dubbi, una profonda pena di vivere, acuita da una delusione che produce rifiuto del mondo, perché incapace di sanare il contrasto tra il bisogno di essere in esso presenza viva e forte, e di gridare a tutti questo desiderio, e la sconfitta sentita come inevitabile, con la conseguente tentazione di un annullamento che, nel caso di Giuliana Brescia, diviene scelta di morte. Questa dinamica di emozioni la troviamo espressa nel momento stesso in cui la scrittura sembra offrire lo strumento vitale per quel grido/affermazione di sé, mentre poi non fa nient’altro che annullarlo. In Ribellione, la prima delle poesie raccolte postume in Poesie del dubbio e della fede, è il verbo “scenderò” a dare la chiave di lettura del suo disprezzo del mondo, inteso come un inferno di contraddizioni e di delusioni che corrodono le tele di sogni intessute in più punti della sua vita e della poesia.
Scenderò parlerò griderò
che son viva, che voglio, che posso!
E infine, ben venga la morte,
saprò dire anche a lei che disprezzo
questo mondo.
Il suo percorso poetico, tanto breve quanto intenso, è attraversato da una tristezza senza pause, ma è soprattutto il tentativo di guardare alla propria esistenza nell’ottica di un bilancio che potrebbe darle ulteriori spunti di vita e di poesia, a farla naufragare nella certezza costantemente esibita che i suoi sogni non vedranno mai l’alba. In Versi affioranti dai cassetti la dimensione del sogno è sempre legata alla consapevolezza che essi siano lì, pronti a darle una speranza che poi lei stessa tenacemente si nega.
È la poeta che ci parla dei suoi sogni:
[…]di quei sogni che avevano sapore
di dolce presente e di un domani di poesia
[…]
Sogni che inutilmente e caparbiamente ricerca, ma che sente irrimediabilmente persi:
I miei sogni si sono persi
nel deserto desolato della realtà.
La conseguenza è questo autoannullamento, è lo spegnersi della poesia insieme al sogno
Non ho più voglia di ridere,
non ho più voglia di piangere,
non ho più la forza di vivere
Io resterò immobile,
con negli occhi attoniti
un sogno che non vedrà l'alba.
Spesso Giuliana è stata avvicinata a Saffo, per aver cantato l’amore desiderato e irraggiungibile oltre i confini della concretezza della vita, come in Ombre irreali, tratta da Poesie del Dubbio e della Fede.
T'ho amato.
Così, dolcemente
e senza saperlo.
M'accorsi d'un tratto
di piangere lacrime
gonfie d'amore,
sognando la notte
soltanto di te.
Leggevo il domani
nel fondo degli occhi
trovando la vita
in un bacio,
nel dolce veleno
di un tacito inganno;
nel sole la gioia
di un nuovo mattino
nel buio la speranza
di un giorno d'amore.
E tu mi parlavi
col cenno degli occhi
stringendomi forte,
baciandomi, dolce.
Ho amato
in ogni tuo gesto,
in ogni parola
non te, ma forse soltanto
un'ombra irreale
di un sogno:
ché il sogno tu fosti
di un cuore, ansioso
di vivere e amare:
e voglio pensarti
domani, per sempre
soltanto così.
L’accostamento a Isabella Morra convince maggiormente, per la tragica condizione e conclusione delle loro brevi vite e per la ricerca di un stile personale, sempre in bilico tra l’essere dentro o fuori dai modelli tradizionali, ma soprattutto perché entrambe sono ossessionate dal limite che le imprigiona, un limite che per Isabella ha la concretezza del castello di Favale, mentre per Giuliana ha l’immaterialità, non per questo meno potente, della solitudine interiore. Maria Pina Ciancio richiama l’attenzione alla vicinanza tra la liricità propria del neorealismo pavesiano e quella bresciana: una mescolanza tra Realismo e Decadentismo. Pavese si sforza di uscire dalla solitudine servendosi della scrittura ma, alla fine, prevale un sentimento cupo e disperato che lo porta al suicidio, tuttavia egli pareva aver trovato almeno nella memoria dell’infanzia e delle Langhe abbandono e conforto. Al contrario di Pavese, Brescia, nel crollo dei miti dell’infanzia e nella lucida consapevolezza dell’irrimediabile solitudine esistenziale, non trova altro che segnali di morte. In Nostalgia, ad esempio, la poeta cerca un abbraccio con la natura, con ricordi addolciti da riti comuni e intime intese, ma l’idea di ritrovare l’antica stagione nella memoria si salda con l’attesa del morire d’autunno per un lento/male di nostalgia. Ai laghi di Monticchio, che in più passi della sua poesia le fanno da specchio, agli alberi che li circondano in un abbraccio perennemente verdeggiante, la poeta Brescia raccomanda il suo destino di foglia stanca che l’accomuna a un vento cui più nessuna volontà indica percorsi sensati, ai rami, simboli di una stabilità invano cercata, chiede sorrisi, reperti di una vita cui ancora le parole sembrano dare un senso e un valore, ma in fondo non è questo che un estremo congedo da sé e dalla terra che ha amato. In Notturno il dialogo tra le due se stesse, la donna e la scrittrice, non si articola in sentieri di parole, magari ardue e indecifrabili ma comunque intuiti come percorribili; per desiderare d’essere ella deve fingersi una meta, ma la sola prima svolta produce una condizione di ipotesi irrisolte e irrisolvibili:
[…]non saprei
se continuare ancora o ritornare
dicendo: un’altra volta.
E sarà mai.
In Autolesionista, proprio quella che in molti momenti è apparsa come l’unica ragione di vita, la parola poetica, si trasforma in nemica, lo stile si fa crudo e aderente perfettamente alla situazione senza alcun filtro, il passo verso l’afasia e l’annullamento è ormai breve:
Sta scendendo la sera
e io leggo appena
le parole che scrivo
ma tutte le sento
dinanzi a me
in fila e minacciose.
Sono pronte
a slanciarsi contro il mio petto
per annientarmi,
ed io ne ho paura, eppure
continuo a farmele sfilare
dinanzi,
lasciando che ognuna
mi segni con una ferita
senza sangue.
Raffaele Nigro definisce Giuliana Brescia “in fuga dalla società meridionale al trapasso, di cui è figlia”.
Il travaglio di Giuliana Brescia davvero supera la condizione personale e diventa simbolo di una società in profonda trasformazione, eppure bloccata in radicati pregiudizi, da cui per le donne, per le scrittrici soprattutto, può essere più desiderabile, pur con sofferenza profonda, essere transfughe (nella fuga dal luogo d’origine o nella morte) che attraversarla da stanziali, affrontandone cause e conseguenze concrete, doloranti ma rafforzate, per giungere al traguardo di una personale e poetica nuova identità ricomposta da quel trapasso, positivo traguardo da proporre alle nuove generazioni. La distinzione tra transfughe e stanziali è di Rosa Maria Fusco (Le Lucane, Moliterno 1986), che avverte come la frontiera delle stanziali sia la pagina, dentro cui il Sud, dalle donne scrittrici o lettrici che siano, può essere vissuto senza sudditanze, non come rassegnazione o rinuncia o ripiego, ma come scommessa.
Giuliana Brescia, Poesie del dubbio e della fede, Laurenziana 1984
Rosa Maria Fusco. Le Lucane, i percorsi della scrittura femminile in Basilicata, R. Perrino 1986
Lorenza Colicigno, Autobiografismo e condizione femminile in Donne e poesia nella cultura lucana del Novecento, in Poeti e scrittori lucani contemporanei, Associazione Humanitas, S.T.E.S. 1994
Anna Santoliquido, “La poesia delle donne: la voce di Giuliana Brescia”, Rivista online di Poesia e Critica Letteraria “Euterpe”, Dicembre 2020
a cura di Mario Santoro, Profili di scrittori lucani
Maria Pina Ciancio, Omaggio a Giuliana Brescia
Michele Traficante, Un ricordo di Giuliana Brescia, la Saffo di Rionero
Voce pubblicata nel: 2021
Ultimo aggiornamento: 2023