Francesca Recchia ha attraversato mezzo mondo, spinta dalla passione per la conoscenza. Forzando sia letteralmente che figurativamente molti confini, i suoi vagabondaggi l’hanno portata in posti insoliti e spesso pericolosi.
Francesca ha sempre infranto convenzioni e stereotipi – come quando, da adolescente, è stata la prima rappresentante d’istituto di sinistra, interrompendo la lunga tradizione politica di destra del liceo di Avezzano, in centro Italia; oppure quando, molti anni più tardi, ha fatto conoscere agli studenti della University of Kurdistan Hawler, in nord Iraq, le potenzialità del pensiero critico e di forme alternative di dialogo. Lascia il suo paese d’origine subito dopo gli anni “molto” politici del liceo. Non è stata solo la scelta di laurearsi in Conservazione dei Beni Culturali a spingerla a Venezia, dalla parte opposta dell’Italia; trasferirsi a Venezia è stato perciò per lei un modo di ricominciare da zero: «dove nessuno mi conosceva e io potevo davvero capire chi fossi e che cosa volessi». Questa è per lei una costante: «Mi sento sempre un po’ fuori posto, cerco continuamente cose diverse e finisco sempre per essere un po’ più fuori posto, ma un po’ più contenta di prima».
In ambito accademico la sua irrequietezza ha acquisito nel tempo significati diversi: non è mai stata capace di dedicarsi ad una sola disciplina, di studiare con un solo professore o in una sola università – «intellettualmente non sono monogama», dice.
Nei primi anni di università hanno cominciato a prendere forma le sue convinzioni intellettuali: l’idea che la conoscenza non sia unidirezionale e che l’intelligenza sia un prodotto collettivo, ha giocato nel tempo un ruolo importante. Un’idea potente che, in realtà, non molti accademici condividono. Per la tesi di laurea (1999) ha mescolato arte e sociologia, scrivendo sull’arte contemporanea e i suoi devianti: l’esplorazione della linea sottile fra il genio e la follia non ha raccolto il consenso di tutti i professori. La sua relatrice, Giuliana Chiaretti, è stata la sola a sostenerla e ad incoraggiare il suo approccio interdisciplinare.
Il Master in Studi Visivi al Goldsmiths College di Londra le ha cambiato la vita grazie all’incontro con Sarat Maharaj, un professore sudafricano di origini indiane.
Qui, ancora una volta, ha rotto gli schemi organizzando un gruppo di discussione alternativo aperto a tutti, in cui artisti e critici potevano incontrarsi, cosa fino a quel momento piuttosto rara. Francesca, in questa fase del suo percorso intellettuale, ha cominciato a mettere in discussione le dinamiche di produzione della conoscenza ed è così che gli Studi Postcoloniali e Subalterni hanno colpito la sua attenzione.
Quando Londra sembrava praticamente perfetta per lei, ha deciso di spostarsi di nuovo: l’Italia era nel bel mezzo della “fuga dei cervelli” e tornare le è sembrato un dovere morale.
Con una borsa di studio consegue il dottorato di ricerca in Letterature, Culture e Storie dei Paesi Anglofoni presso l’Università L’Orientale di Napoli. Dopo le ondate di migrazioni successive alla seconda guerra mondiale, l’idea di Europa è cambiata e il “noi” e gli “altri” hanno preso all’interno dei suoi confini una nuova forma.
Francesca ha subito il fascino della trasformazione di questa idea di alterità e ha deciso di scriverne per la sua tesi, utilizzando la città di Londra come caso studio.
Infrangere i muri dell’arroganza intellettuale non rende la vita semplice a nessuno, e così è stato anche per lei. Con i suoi professori di Napoli ha sempre avuto difficoltà ma “fortunatamente” Sarat Maharaj è tornato nella sua vita, invitandola a lavorare per Documenta 11, la prestigiosa mostra che segna ogni cinque anni i paradigmi dell’arte contemporanea. Da lì ha cominciato a lavorare con multiplicity, un gruppo interdisciplinare di ricerca con cui ha condiviso, dice: «l’interesse per come cambiano le città e per il modo in cui le persone e i luoghi interagiscono». A Documenta, il gruppo di cui faceva parte aveva un mantra – Sbatti contro il muro e impara ad abbracciare il tuo destino – questo è stato da allora un motto che ha continuato ad accompagnarla visto che l’unico modo in cui riesce ad imparare è sempre per la strada più difficile. Ha viaggiato con diversi gruppi di ricercatori trovando opportunità per fare lezioni, studiare ed esplorare posti quali il Pakistan, la Palestina, il Kashmir, l’Oman, la Tunisia oltre a diversi paesi europei, sempre esercitando la sua non comune abilità di interpretare patterns insoliti, di unire punti di disegni invisibili.
«Mi ha insegnato l’umiltà intellettuale e la consapevolezza che la curiosità non ha mai fine!», dice di lei Sir Peter Hall, uno dei padri fondatori dell’urbanistica europea. Con lui Francesca ha completato il post-dottorato alla Bartlett School of Planning della University College of London.
Grazie alla collaborazione nel 2008 con TU Delft, in Olanda, con il gruppo Urban Body – che si interessa di sviluppo urbano mettendo al centro della prospettiva di ricerca il corpo umano – Francesca Recchia è arrivata a Bombay, in India, dopo analoghe esperienze a Pechino e Madrid.
«Credo che l’intelligenza e la conoscenza siano processi condivisi, le mie lezioni non sono quasi mai frontali, ma fondate sulla discussione».
Lezioni e conferenze nel tempo l’hanno portata a Venezia, Milano, Delft, in India, in Pakistan, in Palestina… Francesca ha sempre pensato all’insegnamento come ad un’attività politica – un’azione politica intesa nel senso della possibilità di produrre cambiamento anche se fino a quel momento la sua esperienza sembrava mettere in discussione le sue idee: «Ero a disagio, mi sembrava di essere pagata per prestare un servizio.» Per lei, insegnare l’importanza del pensiero critico, del dialogo, della discussione, dell’apprendimento democratico è sempre stato tanto rilevante quanto trasmettere i contenuti.
Il Kurdistan iracheno è in una fase di transizione verso la democrazia e la missione della University of Kurdistan Hawler è quella di combinare tradizioni locali e pensiero contemporaneo: cercavano un docente di sociologia urbana e a Francesca Recchia questa è sembrata una occasione perfetta: l’esperienza di quei due anni sta diventando un libro che testimonia la ricchezza di quell’incontro.
Francesca è tornata in India a luglio del 2010 dove ha lavorato per un periodo alla trasformazione radicale di un villaggio rurale prima di rimettersi di nuovo in viaggio. Il mondo è lì che chiama e lei è sempre pronta a rispondere.
(foto: Selvaprakah L.)
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023