Una cuoca, una sarta, una ricamatrice in bianco: tre sorelle che vivevano in un rapporto osmotico, con personalità e professionalità diverse, donne semplici che hanno lavorato fino alla fine dei loro giorni non tanto per necessità quanto per passione e per l’abitudine ad un’etica del lavoro che aveva contraddistinto la loro famiglia. Tre sorelle che portavano all’anulare della mano sinistra, al posto della fede, un anello - spesso con corallo rosso - attestante orgogliosamente il loro “essere signorine” quando chi non era sposato era visto con compatimento. Non hanno avuto riconoscimenti a livello nazionale, semmai hanno goduto di una certa fama locale nell’ambito della loro professione nei primi decenni del secondo dopoguerra.
Fanny, la cuoca, era a Modena direttrice di cucina del più famoso albergo della loro città che continuava a chiamarsi "Reale", nonostante l’Italia fosse diventata una repubblica. Ospitava ricchi borghesi, imprenditori, personaggi dello spettacolo (quelli sì famosi) attratti dalle Ferrari. Non bastava visitare la Scuderia, il desiderio dei più era di incontrare il mitico - già lo era in vita - ideatore e costruttore delle “rosse” e poi intrattenersi intorno ad un tavolo con i piatti della tradizione modenese.
Iolanda, la sarta e Maria, la ricamatrice, ricordavano le sorelle Materassi di Palazzeschi, “le vicende della vita le avevano volute indissolubilmente unite e zitelle”: avevano scelto di lavorare in proprio in un laboratorio casalingo, in un’epoca in cui ancora era prassi andare dalla sarta di fiducia e, se si avevano in particolare figlie da marito, dalla ricamatrice per predisporre la loro dote, a volte ancor prima che trovassero il fidanzato. Ed ecco che le due sorelle confezionavano una abiti per ogni occasione e l’altra corredi per le “Signore” della società bene e non solo.
Una vita insieme, una vicina all’altra. Ognuna aveva la propria clientela, ma succedeva anche di servire la stessa cliente, in particolare quella che si affidava a loro per prepararsi con il futuro matrimonio ad una nuova vita in cui necessitava di un nuovo guardaroba personale e di biancheria della casa. Sono state una coppia. In quella grande stanza le si vedeva attorno alla macchina da cucire Singer: Iolanda con il lavoro in grembo cuciva a mano o a macchina, Maria appoggiandosi sul fianco ricamava su un grande telaio tondo. Indossava durante quelle ore un lungo grembiule con pettorina e due manichette di tela bianchi e appoggiava sulla sedia impagliata vicino a lei i teli bianchi - sempre rigorosamente bianco - per avvolgere e preservare il lavoro affinché tutto rimanesse pulito e fresco alla consegna. Il laboratorio ospitava un gran baule per stoffe e fodere e i tanti avanzi che si conservavano per eventuali incidenti da parte della cliente, strappi, bruciature di sigarette (in questo caso occorreva che Maria intervenisse con la sua maestria con rattoppi o rammendi). Vi era poi un armadio per appendere gli abiti durante la confezione ed un altro con cassetti e ripiani per sistemare la biancheria in preparazione o già pronta per la consegna e scatole con bottoni, pizzi, passamanerie, gros-grain, filati, i modelli in carta velina o “da ingegnere”; una psiche, antica ed elegante specchiera in stile impero, davanti alla quale durante le prove si specchiavano le clienti ed infine un paio di poltroncine per eventuali accompagnatrici per la prova dell’abito. Infatti giovani clienti venivano spesso accompagnate dalla madre (a volte anche la suocera presenziava) che doveva dare il suo benestare soprattutto per verificare che la lunghezza delle gonne e le scollature non fossero troppo provocanti. A completare l’arredo vi era il tavolo da lavoro quadrato di grandi dimensioni di una certa bellezza con intarsi di vari legni ma soprattutto funzionale poiché all’occorrenza (quando si doveva tagliare un abito da sposa con un po’ di strascico, fissare il pizzo su una tovaglia per dodici persone o stirare un lenzuolo singolo o matrimoniale in tutta la sua lunghezza), si raddoppiava estraendone le prolunghe.
Lì ricevevano un paio di commessi viaggiatori provenienti da Offida in Abruzzo che due volte l’anno si presentavano con una valigia piena di pizzi a tombolo per lenzuola, tovaglie, copricarrelli, vassoi, centri, imbastiti con punti lunghi su carte veline colorate. I manufatti a loro giudizio più interessanti venivano acquistati per poi essere proposti alle clienti che richiedevano telerie particolari per il corredo o per ricevere amici e conoscenti in pranzi, tè pomeridiani, serate di gioco, insomma per sentirsi appagate nell’avere pezzi unici da mostrare alle amiche e realizzare il sogno della perfetta donna di casa stile anni ’50-’60, secondo quanto suggerito dai galatei, tra tutti il più celebre di quel tempo Il saper vivere di Donna Letizia. Qui era soprattutto la ricamatrice ad essere chiamata in causa, che aveva anche una collezione di riviste come «Rakam» e «Mani di Fata» supporto importantissimo da mostrare. La sarta invece, per appagare i desideri delle “Signore” di apparire ben vestite durante una cerimonia, una serata a teatro o danzante e, perché no, per la notte, proponeva riviste di figurini di moda come «Burda», «Cherie Moda», «L’Officiel Sposa» in cui trovare l’abito giusto o qualche spunto. Pile di riviste che erano collocate sulla mensola del camino nel loro atelier.
Anche la cuoca proprio per la sua perizia, conosciuta in città, era richiesta da alcune famiglie di professionisti che amavano organizzare in casa pranzi “con i fiocchi” ed erano disponibili a farli il giovedì, suo giorno di riposo, pur di assicurarsi la sua presenza nel predisporre un menù completo dagli antipasti ai dolci. Occorreva per ammannire un menù di cui garantiva la qualità delle portate e la loro mise en place, una lunga esperienza supportata da alcuni strumenti, “quelli del mestiere”, tra cui un ricettario d’impronta signorile di cui continuamente si facevano nuove edizioni, Il Talismano della Felicità di Ada Boni, e la rivista veramente di classe «La Cucina Italiana», diretta a partire dal 1952 dalle sorelle Gosetti della Salda.
Impegno, disponibilità, passione per migliorarsi sempre più, ma anche una complessa manualità costituivano la cifra del loro lavoro. Fondamentali erano le mani, le più belle erano quelle della sarta con dita affusolate, molto eleganti (lei stessa lo era rispetto alle sorelle), mentre la ricamatrice aveva mani brutte, nodose, tozze eppure erano “mani d’oro” ed era questo l’appellativo più nobile per una ricamatrice di professione. Si muovevano infatti con leggiadria sul telaio nel pungere con l’ago la tela di qualunque tipo (cotone, seta, lino, organdis, bisso, mussola) e sapevano fare mille punti (come Carolina Materassi “non v’era punto su questa terra che le fosse ignoto e del quale non conoscesse esecuzione, o che visto una volta non fosse in grado di riprodurre”) dai più semplici come il punto erba a quelli più complessi come il punto ombra, il punto Rodi o Palestrina. Le piaceva ricordare come avesse imparato il ricamo fin dalla scuola elementare e si fosse specializzata in bianco, andando presso la scuola di un educatorio retto da suore che avevano sempre goduto di una gran competenza nei lavori d’ago.
Mani che sapevano dominare la tela nel costringerla tra il pollice e l’indice per fare le sfilature più complesse oppure nell’imbrigliarla nei cerchi del telaio affinché fosse ben tesa per poi tenere una mano sopra di esso e l’altra sotto ad accogliere l’ago all’uscita e spingerlo di nuovo verso l’alto e poi ancora verso il basso, in un continuo fissare piccoli punti uno accanto all’altro. Mani che non sudavano neanche con il caldo afoso d’estate: un dono, ma anche una necessità che era garanzia per consegnare il lavoro fresco, impeccabile. Maria non sapeva disegnare con la matita, ma con l’umile strumento dell’ago era in grado di migliorare, se occorreva, le volute di un raccordo tra i fiori o i petali e il fogliame degli stessi. Mani che preparavano il filo, né troppo lungo ma neppure corto e, sfilato dall’immancabile matassina DMC, lo infilavano con precisione nella cruna di un impossibile ago sottilissimo, pronte a iniziare quella danza che durava un intero giorno, mattina e pomeriggio e che si interrompeva soltanto per l’ora di pranzo e al momento di rigovernare le stoviglie. In cucina il suo compito era quello di asciugare, non certamente di far da mangiare: le sue mani erano troppo preziose per preparare i cibi: ci si poteva tagliare, infortunare compromettendo quel lavoro che durò tutta una vita, anzi nella vecchiaia ripeteva “se tornassi a nascere mi dedicherei ancora al ricamo”.
La vita delle tre sorelle è trascorsa nel Novecento ed ora che non ci sono rivivono nel ricordo di qualche discendente delle loro clienti (ancora capita di incontrarne qualcuno) ma soprattutto in quello dei familiari. Tuttavia la loro memoria rimane e si svela principalmente negli oggetti di lavoro superstiti che continuano a parlarne, ad esprimere storia e significato. Essi esercitano, con quella patina d’antan, un fascino a cui non ci si può sottrarre, s’impongono e travalicano l’affettività e il sentimento. Per ognuna c’è una scatola che contiene gli attrezzi del mestiere (di cucina, di sartoria, di ricamo) però per certi versi strumenti intercambiabili in quanto queste sorelle corrispondevano al modello culturale del loro tempo in cui le donne erano dedite per natura ai lavori femminili in generale. Allora la cuoca nei suoi rari periodi di svago si cimentava nel fare pizzi a chiacchierino con un filato quasi invisibile o a lavorare a maglia. Così la sarta sapeva cucinare benissimo e utilizzava strumenti della sorella come il cilindro sottile con stantuffo per preparare squisiti passatelli. Infine la ricamatrice con il suo strumentario nei periodi di intensa attività coadiuvava la sorella sarta nei lavori di rifinitura che solo lei sapeva fare in modo così perfetto, come asole, sottopunti invisibili su tessuti impalpabili di seta, attacco di bottoni che difficilmente si sarebbero staccati. A volte, essendo passato tanto tempo, sembra che tutto si vada disperdendo, ma raccontare frammenti delle loro storie di vita è dare visibilità, pur nella brevità di un profilo, a donne che svolgevano lavori faticosi che indolenzivano le schiene e mettevano alla prova gli occhi, lavori tediosi, ripetitivi in cui occorreva stare concentrati anche se si applicavano capacità tecniche acquisite già dall’infanzia. Tuttavia, al tempo stesso, erano attività, e lo sono ancora oggi, piene di inventiva, fantasia ed anche libertà d’espressione e ciò aiutava a sopportare scelte che molte volte erano state indotte in quanto destinate a donne del popolo cui era interdetta l’istruzione oltre quella elementare. Fanny, Iolanda, Maria appartenevano a un mondo femminile corale intessuto di relazioni con persone che le coadiuvavano nel loro lavoro e con cui intrattenevano rapporti familiari e amicali: Stefanina, l’aiutante più fidata della cuoca, Carmen la modista, Tersilla che faceva i fiori di stoffa con strumenti ottocenteschi, Lina, Fidalma, Trieste, le aiutanti ricamatrici che preparavano con il punto a giorno o quadro i capi che richiedevano sfilature complesse, Sara la moglie del tappezziere per la confezione di tendaggi ricamati. Frequenti erano le visite brevi, mentre loro continuavano a lavorare, di alcune vicine di casa che passavano per un saluto, due chiacchiere sul tran tran quotidiano, la più assidua era in particolare la maestra Lola in pensione, sempre intenta a fare pizzi all’uncinetto che con generosità ed ironia raccontava storie della sua vita privata e professionale, iniziata nei primissimi anni del Novecento. Quello spazio domestico era caratterizzato anche dai rumori della macchina da cucire, delle forbici nel tagliare le stoffe sul tavolo, dello scricchiolio dell’ago, dello sfrigolio del ferro da stiro, da chiacchiere, da musica e voci della radio, da silenzi.
Quanta vita in quella loro “fucina” .
Voce pubblicata nel: 2023
Ultimo aggiornamento: 2023