"Il sermone che io sto per scrivere alle mie sorelle in Eva … sarebbe da rivolgersi anche a molti fratelli in Adamo, s’intende … ma la mia eloquenza è poca e non oso sobbarcarmi a compito così grave e così inutile! Le donne sono più docili ed hanno ancora (almeno la maggior parte) la coscienza cattolica usa alla costrizione […]. Lasciate in pace la penna, sorelle dilette, date retta a me: o se l’usate, sia per ritornare alla buona, utile nota del bucato, alla minuta del desinare […]”.
Così scriveva la Contessa Eugenia Codronchi Argeli, meglio conosciuta con l’originale pseudonimo di Sfinge, in un frizzante articolo pubblicato sul «Resto del Carlino» il 14 aprile 1912. L’esortazione alle donne e giovinette italiane a prendere in mano pentole e aghi invece che penne e calamai non era nuova nell’ambito delle lettere al femminile: esortazioni simili erano venuti negli anni precedenti da numerose colleghe di Sfinge, da Matilde Serao, a Jolanda, in parte per il timore di venire considerate delle virago, in parte per avvalorare la tesi della donna di lettere che sapeva essere anche una buona moglie, madre, figlia e sorella.
Ma il caso di Sfinge è un po’ diverso: al contrario delle numerose autrici-educatrici del periodo, da Jolanda a Ida Baccini, Sofia Bisi Albini ecc. Sfinge non fu mai veramente interessata al lato più prettamente pedagogico e “femminile” della scrittura delle donne in Italia. Eppure, come molte altre sue colleghe, Sfinge è immancabilmente inclusa in ogni inventario della scrittura femminile e purtroppo quasi nessuno sforzo viene fatto per distinguerla da altre autrici con le quali aveva pochissimo in comune per il piglio modernista della sua scrittura e per l’originalità del suo stile.
Figlia del senatore Giovanni Codronchi Argeli e di Giulia Pizzoli, Eugenia trascorse gran parte della sua vita nel piccolo paese di Castel San Pietro nei pressi di Imola, nella villa di famiglia distrutta durante il secondo conflitto mondiale. Fu giornalista brillante e prolifica, autrice di poesia, romanzi e novelle e nei suoi scritti si rivelò maestra nell’analisi della società contadina romagnola come dell’alta società.
La giovane Eugenia ebbe la fortuna di crescere con “un’educazione vasta e completa (linguistica, letteraria, filosofica e musicale), avvalorata profondamente dall’affettuosa confidenza di Giosuè Carducci, che di casa Codronchi era ospite e amico” come ricorda Dionisio Dall’Osso in un raro ritratto della scrittrice. "Ciò che della scrittura di Sfinge colpisce il lettore moderno sono l’anticonformismo e lo spirito arguto che si rivela soprattutto nelle novelle, in particolare nelle raccolte" (1924), in cui la scrittura modernista ha i suoi esiti più felici. Come suggerisce l’originale pseudonimo di Eugenia – che non era piaciuto a Enrico Panzacchi, il quale non riscontrava “nulla di sinistro, nulla di enigmatico” nella scrittrice romagnola – il lettore di Sfinge è costretto a confrontarsi con intrecci solo all’apparenza lineari e coerenti, ma che in realtà nascondono enigmi e ambiguità. Dopo tutto, tutta la vita di Sfinge fu ambigua e enigmatica. La lunghissima relazione con Bianca Belinzaghi (conosciuta negli ambienti artistici e letterari con lo pseudonimo di Guido da San Giuliano, 1861-1943), interrotta solo alla morte di Eugenia nel 1934, ne è prova tangibile. Fu amore? Con tutta probabilità sì, sebbene chi si è occupato di Sfinge la definisca non più di un’amicizia straordinaria: lo testimoniano la corrispondenza e gli affettuosi testamenti di Eugenia (che a Bianca lasciò quasi tutto il suo patrimonio). Eugenia e Bianca condussero una vita privilegiata fatta di viaggi, salotti, musica e letteratura e intrattennero numerose e durature amicizie importanti nell’ambito dell’ambiente culturale italiano e europeo.
Una autrice contemporanea, Mara Antelling, definì Sfinge una “gran signora con l’abitudine alle cose squisite e signorili, mentre si sente fremere in lei tutte le audacie de’ nuovi tempi in un contemperamento originale e simpatico”. Antelling morì nel 1904 ma la sua intuizione era corretta: Sfinge non prese la strada dello sperimentalismo alla Virginia Woolf, preferendo un modernismo di matrice più cautamente italiana, più pirandelliano se vogliamo trovare un termine di paragone, ma nella sua scrittura è semplice riscontrare le ambiguità e gli atteggiamenti (cautamente) trasgressivi e ribelli tipici dell’epoca. Oggigiorno una piacevolissima sorpresa è riservata agli studiosi della letteratura delle donne fra Otto e Novecento – e agli studiosi di Sfinge in particolare – che visitano la Biblioteca Comunale di Imola: l’archivio completo della corrispondenza e delle carte manoscritte di Sfinge e di Bianca Belinzaghi, grazie a un lascito delle due donne. Troppo spesso gli archivi della memoria delle donne dei secoli precedenti sono andati distrutti o perduti. Questa eccezione ci sembra degna di nota.
Dall’Osso, Dionisio, Ricordo di “Sfinge” (Eugenia Codronchi Argeli), Associazione Giuseppe Scarabelli, Imola, 2001
Frau, Ombretta, Libri chiusi e pagine bianche. Lettrici ingannevoli in Jolanda e Sfinge, in Lettrici italiane tra arte e letteratura, a cura di G. Capitelli, O. Santovetti, Roma 2020, pp. 81-94
Santoro, Anna, Il novecento. Antologia di scrittrici italiane del primo ventennio, Bulzoni, Roma, 1997
Tufani, Luciana. Una sfinge imolese: Eugenia Codronchi, in Leggere Donna 151, aprile-maggio-giugno 2011, pagg. 24-26
Scheda della Biblioteca Comunale di Imola
Voce pubblicata nel: 2014
Ultimo aggiornamento: 2024