Ersilia Bronzini fu una delle più attive protagoniste del movimento emancipazionista femminile italiano.
Fu una personalità complessa e poliedrica che seppe mettere in moto, nell’ambiente politico e culturale in cui operava, idee e proposte molto innovative, motivare e orientare le persone a realizzarle.
Nata il 22 giugno 1859, figlia di un modesto commerciante rimasto vedovo quando lei era ancora piccola, dovette interrompere gli studi a causa del fallimento dell’azienda paterna, così come la sorella, a differenza dei fratelli maggiori che si erano potuti laureare, l’uno in ingegneria e l’altro in giurisprudenza. Compensò questo mancata opportunità formandosi una buona cultura da autodidatta, studiando soprattutto lingue, letteratura, storia e filosofia. Nel 1883 sposò il giovane avvocato e giurista Luigi Majno che sarà anche, per parecchi anni, consigliere comunale a Milano, e dal 1900 al 1904 deputato per il Partito socialista.
Ersilia si avvicinò all’impegno sociale e politico quando già era madre di tre figli (Carlotta, Edoardo e Mariuccia, nati a poca distanza l’uno dall’altro, rispettivamente nel 1884, 1886 e 1888) e aveva superato i trent’anni.
Prese parte alle attività della Guardia Ostetrica, un servizio che iniziò a operare a Milano nel 1887 con lo scopo di assistere gratuitamente la maternità delle donne meno abbienti, e qui emersero da subito le grandi doti organizzative di Ersilia: non solo riuscì ad aumentare notevolmente le entrate, sollecitando amiche e conoscenti danarose, ma predispose anche la procedura per un riconoscimento formale dell’ente, così da renderlo idoneo a percepire finanziamenti pubblici. Fu poi la volta dell’impegno con l’Associazione generale di mutuo soccorso e di istruzione delle operaie, fondata nel 1862 da Laura Mantegazza Solera; nel 1898, in seguito alla dura repressione politica e militare dei moti popolari contro il rincaro del prezzo del pane, fu molto attiva nel Comitato Pro reclusi del maggio.
L’anno seguente fu tra le fondatrici, insieme ad altre dieci giovani donne 1 provenienti quasi tutte dalla borghesia milanese colta, laica e progressista, dell’Unione Femminile (trasformatasi dal 1906, in seguito alla apertura di sezioni in tutta Italia, in Unione Femminile Nazionale) che si proponeva di unire in un‘unica sede, in una sorta di federazione l’attività di molte delle associazioni disperse dopo la repressione militare e politica dell’anno precedente e che, pur nelle loro diversità, condividessero il fine dell’emancipazione femminile, “allo scopo di cooperare all’elevazione morale e al miglioramento intellettuale, economico e giuridico della donna”. Da quel momento dedicò interamente il suo impegno e le sue energie a questa associazione e ad alcune delle istituzioni cui essa diede vita; tra queste, l’Asilo Mariuccia, che diresse fino al 1933, anno della sua morte. Fu fondato nel 1902 e intitolato alla memoria della figlia minore Mariuccia, morta all’improvviso di difterite nel giugno del 1901 all’età di tredici anni e la sua missione era accogliere, ospitare e rieducare bambine e adolescenti esposte al pericolo di venire immesse nel giro della prostituzione. A differenza degli altri istituti di accoglienza gestiti da suore o consorzi di donne cattoliche, era spiccatamente carattere laico e aconfessionale e presentava quelle peculiarità programmatiche che distinguevano tutte le istituzioni dell’Unione Femminile: cioè il concetto di servizio pubblico, che prevedeva la gratuità dell’assistenza e l’azzeramento delle difficoltà burocratiche per accedervi, la volontà di studiare le cause per risolvere il problema alla base, una forte intenzionalità politica e il tendere sia a un fine “educativo” nei confronti di coloro che non avevano ancora piena consapevolezza della loro situazione e dei propri diritti, sia a dare visibilità alle capacità femminili. Ma, soprattutto, esse si proponevano di sostituire alla “assistenza riparatrice” - cioè a quella “carità che dona”- un moderno assistenzialismo laico, che studia i problemi, interviene sulle cause per prevenire i mali futuri e non dà elemosine, ma offre strumenti di crescita e autonomia.
Oltre che per il suo impegno in campo assistenziale, Ersilia si distinse anche come pubblicista, soprattutto all’interno della rivista «Unione femminile», che fondò per colmare il vuoto d’informazione sulle attività della associazione e sul movimento femminile in Italia e all'estero, ma anche nelle sue documentate relazioni, con le quali partecipava a convegni nazionali e internazionali.
Tra queste, merita di essere qui citata quella dal titolo Norme per regolare il lavoro delle donne, con cui partecipò nel 1895 al Congresso sugli Infortuni del lavoro. Dopo una disamina statistica su orari, salari e condizioni lavorative, aveva sostenuto la necessità di una legge che tutelasse il lavoro delle donne, formulando proposte precise e concrete. Ad essa si rifece, snaturandone però alcuni punti anche sostanziali, Anna Kuliscioff per stendere il progetto di legge presentato dal partito socialista italiano che, durante l’iter parlamentare che portò nel 1902 all’approvazione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, tenne peraltro un comportamento che deluse e amareggiò non poco Ersilia: “Sono convinta che noi donne al posto dei nostri cari deputati avremmo ottenuto ben di più e lottato con maggior fede ed energia”.
D’altra parte, con il partito socialista - nel quale come si è detto, militava il marito – ebbe spesso un rapporto conflittuale; ma, soprattutto, c’era alla base una divergenza di fondo: Ersilia, pur considerando il socialismo una utile chiave di lettura della realtà e un ideale cui sempre aderì, si rifiutava però di subordinare la questione femminile alla fede politica, convinta che l’emancipazione delle donne fosse un processo da attivare subito, con lotte specifiche, senza attendere la sognata rivoluzione. Un altro tema che affrontò con grande passione e competenza sia sulla rivista dell'Unione sia in diversi congressi nazionali fu quello della delinquenza minorile e dei mezzi per prevenirla, sostenendo la necessità dell’introduzione di un sistema penale differenziato per i minori, con magistrati specializzati, metodi di recupero educativi e non punitivi e istituti di pena separati da quello degli adulti. Queste posizioni erano in aperta polemica contro la normativa italiana per cui i ragazzi erano perseguibili dai nove anni, con poche speranze di evitare il carcere degli adulti, e contro l’organizzazione prevalentemente religiosa dei riformatori.
Come esperta su questi temi fu chiamata a far parte della Commissione reale per lo studio della delinquenza minorile, costituita nel 1908, che redasse un codice dei minorenni in cui si prevedeva che in ogni tribunale ci fosse un magistrato minorile affiancato da altro personale specializzato.
Nel 1914, allo scoppio del conflitto europeo, sostenne da subito, nell’articolo Il nostro dovere apparso su «Il Secolo» del 3 settembre, che fosse dovere dell’Unione Femminile, di cui era allora Presidente, acquisire “un concetto chiaro delle difficoltà della situazione, per prevenirne, per quanto possibile le disastrose conseguenze”; e durante tutto il periodo bellico non fece mai mancare il suo attivo impegno nell’assistenza cittadina, all’interno del Comitato Centrale di assistenza per la Guerra. Fu sempre disponibile a dare il proprio contributo, anche a livello nazionale, non tirandosi mai indietro di fronte ai numerosi incarichi che fu chiamata a ricoprire, i quali testimoniano la fama e la stima di cui godeva.
Visse però con preoccupazione la deriva filantropica di maniera che parve caratterizzare l’Unione Femminile negli anni della guerra, facendo calare l’attenzione nei confronti di una politica complessiva sulla condizione femminile; soprattutto non condivise il fatto che, a partire dalla rotta di Caporetto, l’Unione tendesse a virare verso posizioni nazionalistiche, allontanandosi sempre più da quegli ideali che l’avevano sorretta al suo nascere. Ma fu solo nel 1920, davanti alla scelta di aderire al Comitato Femminile di Organizzazione Civile, che di fatto richiedeva di fare opera di crumiraggio durante gli scioperi nei servizi, che sentì di non poter far altro che presentare le proprie dimissioni da socia, rivendicando la propria fede socialista (“Alla classe degli umili, voi lo sapete, io sono legata”) che le imponeva di non poter restare in una “istituzione che [aveva] aderito ad una azione contro la classe lavoratrice”. Si accomiatò così, tristemente, dall’associazione che aveva fatto nascere.
Negli ultimi anni di vita, però, Ersilia riallacciò i rapporti con le compagne e il 7 febbraio 1930 partecipò alle celebrazioni per il trentesimo anno di vita dell’associazione, insieme con le collaboratrici di un tempo e le socie più recenti. E l’Unione - che nel frattempo era tornata a essere fedele a se stessa e alle finalità per cui era nata, chiudendo con quella parabola che aveva avuto inizio dopo Caporetto e che aveva toccato il suo apice con l’adesione al Comitato Femminile di Organizzazione Civile - organizzò, dopo la sua morte, avvenuta il 17 febbraio 1933, una solenne commemorazione per ricordarla e tributarle un “omaggio di onoranza e di gratitudine”: nessun cenno alla rottura avvenuta e alle sue dimissioni compare nella pubblicazione in sua memoria, che raccoglie anche la commossa e affettuosa orazione funebre della sua vecchia amica Nina Rignano.
Annarita Buttafuoco, Solidarietà, emancipazionismo, cooperazione. Dall'Associazione generale delle operaie all'Unione femminile nazionale, in L'Audacia insolente. La cooperazione femminile, 1886-1986, Marsilio, Venezia 1986
Graziella Gaballo, Il nostro dovere. L’Unione Femminile tra impegno sociale, guerra e fascismo (1899-1939), Joker, Novi Ligure 2015
Voce a lei dedicata sul sito dell'Unione Femminile Nazionale
Referenze iconografiche: Ersilia Majno, 1940. Immagine in pubblico dominio.
Voce pubblicata nel: 2017
Ultimo aggiornamento: 2023