Sua madre era Pierina Avezzana, figlia del generale Giuseppe, amico di Garibaldi; suo padre era il barone Giandomenico Romano, giovane deputato del parlamento italiano nel 1870. Era la quarta figlia. La sua vita fu intensa, ma breve.
Sposò, a sedici anni, il marchese Francesco Maria Pellicano dei duchi Riario-Sforza, anch'egli deputato ed ebbe sette figli che allevò per lunghi periodi nella tenuta del marito di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria), alternando la residenza a Castellamare di Stabia, a Napoli, e nella sua villa di Roma, il cui salotto fu frequentato dai Ministri Orlando, Di Rudinì, Salandra e da intellettuali, scrittori e poeti, come Salvatore Di Giacomo, Luigi Capuana, Matilde Serao. Rimasta vedova nel 1909, si occupò del patrimonio familiare, incrementando, in qualità oggi diremmo d'imprenditrice, le proprietà e mettendole a frutto, creando persino a Prateria (una frazione di San Pietro di Caridà, in Calabria) un'impresa forestale S.p.A.
Era un'appassionata amazzone ed una europeista convinta. Parlava almeno francese, inglese, italiano. Svolse attività di giornalista che per quel tempo era una vera e propria rarità specie per le donne. Fu corrispondente della gloriosa rivista mensile «Nuova Antologia», fondata nel 1866 a Firenze poi trasferita a Roma, nella quale facevano le loro prime prove importanti scrittori in vista del momento, tra cui Pirandello. Collaborò anche a «Flegrea» e alla rivista quindicinale torinese «La Donna» che le dedicò qualche suo numero. Scrisse per quest'ultima rivista tre reportage, nel 1909, rispettivamente i nn. 111,115,117 come corrispondente da Londra, dove s'era recata in qualità di socia delegata del CNDI (Consiglio Nazionale Donne Italiane) per partecipare al Congresso Internazionale femminile che lei chiamava la “nostra alleanza”, sorta fin dal 1902. Vi rimase una settimana che fu molto intensa di incontri e di feste e descriveva la gran kermesse di rappresentanti di ben 21 paesi esteri, tra cui Nuova Zelanda, Australia, Norvegia, Danimarca, Finlandia fino alla misteriosa regione del Transvaal, in Africa. Era orgogliosa d'essere rappresentante dell'Italia, arrivata quasi per ultima, ma ben determinata a contare. Bella la sua espressione augurale: «Ricordatevi voi donne d'ogni razza, d'ogni paese - da quelli dove splende il sole di mezzanotte a quelli in cui brilla la Croce del Sud - qui convenute nella comune aspirazione alla libertà, all'uguaglianza, strette da un nodo di cui il voto è il simbolo, ricordatevi che il nostro compito non avrà termine se non quando tutte le donne del mondo civilizzato saranno sempre monde dalla taccia di incapacità, d'inferiorità di cui leggi e costumi l'hanno bollate finora!»
Riconosceva che la battaglia femminile era sacrosanta e imposta da necessità storiche e sociali. Le popolazioni settentrionali avevano capito, prima di tutte le altre, l'idea che il destino della donna è congiunto a quello dell'uomo e che dal rispetto reciproco dipende una vita futura migliore.
Raccomandava poi il motto che in quell'occasione era stato coniato:«Nelle cose essenziali unità, nelle non essenziali libertà, in tutte carità».
Purtroppo Clelia Pellicano non vide la conclusione della lotta per il suffragio ingaggiata con tante altre socie di numerosi comitati allora sorti per rivendicare i diritti socio-politici delle donne, nonostante che, anche a Roma, nel 1914, avesse partecipato al Congresso con un ordine del giorno da lei stessa stilato e la richiesta d'una migliore retribuzione del lavoro femminile (il diritto di voto alle donne, in Italia, lo ricordiamo, verrà introdotto molto più tardi da Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi con Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 23 Estensione alle donne del diritto di voto del 1° febbraio 1945). Risulta che lei avesse firmato con il suo nome d'arte, Jane Grey, (nome di una sfortunata regina inglese all'epoca di Enrico VIII) la prefazione del libro La legge e la Donna, scritto da Carlo Gallini nel 1910 per sollecitare il parlamento italiano ad ammettere le donne al voto.
Affiancò alla battaglia civile e politica l'attività di scrittrice sotto lo pseudonimo sopra ricordato. In quest'ambito scrisse romanzi e novelle dal forte timbro realistico: La vita in due o Coppie, nei quali analizzava e descriveva le difficoltà del matrimonio, le implicazioni sentimentali, le incomprensioni, l'etica del buon esempio per i figli. S'è perso il romanzo Verso il destino che risulta introvabile anche nell'archivio dei suoi eredi, il nipote Francesco Paolo Pellicano, artista, e il pronipote Furio Pellicano, giovane giurista. Si conservano invece e sono state riedite in anastatica, presso l'editore bolognese Arnaldo Forni Le novelle calabresi del 1908, talune brevi, ma incisive descrizioni della realtà contadina e dell'emarginazione delle donne del popolo, verso le quali la scrittrice nutre sentimenti di viva simpatia e solidarietà. Nello stile si sente chiaramente l'influsso oltre che del primo Verga, di Flaubert e di Maupassant.
Clelia Romano Pellicano impersonò veramente il passaggio dalla tradizione alla modernità. Nel 1912 curò una sottoscrizione nazionale ed intervenne personalmente con un suo contributo per favorire il trasporto e la cura dei feriti e degli ammalati. Condivise l'ideologia socialista che era della sua famiglia, mettendo in pratica soprattutto il credo mazziniano dei diritti e dei doveri per una sorta di religiosità laica e si mostrò generosa ed altruista, attenta e positivamente proiettata verso il futuro.
Merita d'essere ricordata come esempio d'una femminilità coraggiosa e dinamica che trasmette valori etici e si realizza nella creativa azione divulgativa.
A. Santoro, Antologia di scrittrici italiane del I ventennio, 1997, p.275
P. Guida, Scrittrici di Puglia. Percorsi storiografici femminili dal XVI al XX sec., 2008, p.491
Su Stabiana
Referenze iconografiche: Ritratto di Clelia Romano Pellicano. Immagine di Alex Totino, Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported license.
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023