Barbara McClintock è stata una donna estremamente colta, brillante, ostinata, acuta e originale. Così in anticipo sui tempi da venir compresa con difficoltà. A lei si deve la scoperta degli elementi trasponibili (trasposoni o jumping genes), ovvero di geni in grado di modificare la propria posizione nel genoma. Per l’importanza e il valore della scoperta, è fra le prime donne a ricevere - da sola - il Premio Nobel per la Medicina (la prima fu Gerty Cory), anche se solo nel 1983, a ben 35 dalla pubblicazione dei suoi primi lavori sui trasposoni.
Per alcuni anni l’impresa di Barbara incontra una profonda incomprensione. Nonostante ciò, in occasione del premio, disse di essere stata molto contenta della sua «vita ben vissuta, perché ho potuto dedicarmi a ciò che più mi piaceva».
Dal 1944, Barbara era membro dell’Accademia americana delle scienze - terza donna dalla sua fondazione – e l’anno successivo era stata eletta presidente della Genetics Society of America (prima donna). Malgrado questo, alcuni genetisti accolgono increduli, nel 1951, i risultati da lei pubblicati: l’identificazione di geni che, a seconda di dove si spostano su un cromosoma, fanno assumere colori diversi ai chicchi di una stessa pannocchia. Questo dato non solo smentisce le semplici regole di Mendel, ma il riconoscimento dei trasposoni risponde a una domanda che lui non si era posto, relativa a tutte le forme di vita: come mai pur avendo geni identici, le cellule formano tessuti e organi con forme e funzioni così diverse? Per Barbara, l’implicazione è un’altra, ancora più ambiziosa e mai dimostrata: i geni saltanti influenzano decisamente lo sviluppo embrionale, oltre a rappresentare un importante motore all’evoluzione di diversità all’interno di una specie. Agli amici Beade e Rhoades, scrive che non aveva saputo farsi capire, e comunque, a disagio con idee astratte, preferisce gli esperimenti sul campo alla teoria.
A quei tempi, l’idea di un genoma plastico e versatile non è ancora popolare; ancora oggi l’espressione “ce l’ha scritto nel DNA” rivela l’immaginazione del DNA come qualcosa di immutabile, l’indicatore di un destino scritto definitivamente. I genetisti più brillanti sospettavano che così non fosse e la invitano a illustrare le proprie ricerche nelle grandi università.
In quel giorno del 1951 qualche battuta dei colleghi le fa sentire il disagio di venire sottovalutata in quanto donna - lo ricorderà decenni dopo in più interviste. E se si pensa ad alcune star della genetica, come James Watson, vien da rispondere che la sua sensazione fosse ben fondata. Nonostante questo momentaneo insuccesso e l’incomprensione con la comunità scientifica, Barbara prosegue le sue ricerche.
Dal 1953 ottiene finanziamenti per studiare l’evoluzione spontanea delle varietà di mais in America Latina e smette di pubblicare ricerche sui trasposoni. Nel 1961, François Jacob e Jacques Monod fanno una scoperta analoga nei batteri e l’esperimento che la conferma.
Due anni dopo, la descrizione della struttura a doppia elica del DNA contribuisce a chiarire il meccanismo fisico della trasposizione. Poco dopo, giungono finalmente i riconoscimenti importanti: premio Kimber per la genetica nel 1967; medaglia Morgan ai pionieri della genetica, dottorati honoris causa come se piovessero e, nel 1981, tre premi che spesso preludono al Nobel: Wolf, Lasker e MacArthur alla carriera.
«Per Dio, o questa donna è pazza o è un genio», aveva detto di lei trent’anni prima il genetista Joshua Lederberg (Nobel 1958) che propendeva per la prima ipotesi. Se lo pensava ancora, dovette ricredersi nel 1970 quando su raccomandazione dell’Accademia americana delle Scienze il presidente Nixon appunta sul petto della dottoressa McClintock la medaglia nazionale per la scienza.
Cresciuta in una famiglia che le insegna innanzi tutto a seguire le proprie inclinazioni, sin da giovane Barbara nutre un sincero piacere per lo studio. «Non è importante quello che devi essere, ma ciò che sei» è una frase che le viene ripetuta spesso dai genitori. Sua madre però non vuole che frequenti l’università, teme infatti che un eccesso di istruzione sia di ostacolo al matrimonio e solo grazie al padre, appena rientrato dal fronte europeo, Barbara si iscrive alla facoltà di agraria dell’università Cornell, aperta alle studentesse dal 1870. Le leggi di Mendel erano state riscoperte vent’anni prima, «emergevano concetti rivoluzionari», come ricorda lei stessa nella breve autobiografia scritta in occasione del premio Nobel, «che certi biologi professionisti erano riluttanti ad accettare». Non a Cornell, dove C.B. Emerson la invita, unica ragazza, a conseguire un dottorato nel suo gruppo di genetisti.
Durante gli anni del college si esprime tutto il suo anticonformismo: indossa pantaloni, porta i capelli corti, suona il banjo in un gruppo che si esibisce in vari locali della città. Nello stesso periodo, rifiuta di entrare a far parte di un’associazione universitaria di donne quando si rende conto della tendenza snob ed esclusivista dei loro incontri: le sue amiche, molte delle quali ebree, non sarebbero mai state ammesse. Si laurea a pieni voti nel 1923, ma subito dopo il college si ammala. Viene invitata a stabilirsi per un periodo a casa della dottoressa Esther Parker, che vive con l’anziana madre ed è abituata ad aiutare i giovani studenti quando ne hanno bisogno. Accudita dalle sue premure e cordialità, Barbara trova un’altra famiglia e un rifugio fisico e spirituale.
Si ristabilisce e riprende a lavorare con passione: è molto abile in laboratorio, e subito in grado di lavorare in piena autonomia. Dimostra un particolare talento nelle osservazioni al microscopio ottico, e presto acquisisce una gran padronanza delle analisi citogenetiche. Nel 1931, assieme alla sua dottoranda Harriet Creighton, fornisce la prova definitiva che i geni si trovano realmente sui cromosomi dimostrando che la ricombinazione genica (il crossing over) avviene tramite uno scambio fisico di parti di cromosomi omologhi. Per tre anni le due giovani lavorano sette giorni su sette, e per svagarsi si sfidano in agguerrite partite a tennis, vinte quasi sempre da Barbara: «Non devi essere pigra, ogni momento è importante», ...così rimprovera Harriet quando rinuncia a prendere una palla.
Nel laboratorio di Emerson, è raggiunta da Marcus Rhoades e George Beade (Nobel 1958); «per tutti noi fu un periodo straordinario» anche grazie a Emerson «che ignorò tranquillamente i nostri comportamenti all’apparenza strani».
Era «in sintonia con l’organismo» come scrisse Evelyn Fox Keller, un’osservatrice attenta e partecipe, dotata di una particolare capacità analitico-introspettiva, oltre a pazienza, metodo e determinazione. «La cosa importante è sviluppare la capacità di vedere che un seme è diverso dagli altri, e capire perché e in che cosa consiste questa differenza», diceva. «Se qualcosa non torna, c’è una ragione, e si tratta di scoprirla. Ciò che per gli altri è frutto di immaginazione o di speculazione, per me è questione di allenamento alla percezione diretta. [...] Occorre avere il tempo di guardare, la pazienza di ascoltare ciò che le cose hanno da dire».
Barbara McClintock diventa ben presto una ricercatrice rinomata. Professore assistente a 35 anni all’università del Missouri quale «il miglior citologo che si possa trovare, e insuperata nel suo campo» ne tollera male la burocrazia assurda, le discriminazioni verso le docenti e l’obbligo di insegnare. Vuole libertà di ricerca, e la ottiene dall’Istituto Carnegie di Washington che la assume e le dà a Cold Spring Harbor un laboratorio che oggi porta il suo nome.
Barbara si distingue anche perché non segue il pensiero logico e sequenziale, in qualche modo “canonico”, della scienza. Lavora sulla base di vedute globali e intuitive. Se si arena su un problema, preferisce uscire dal laboratorio per andare a passeggiare nel bosco, cercando di pensare a qualcos’altro, convinta che la soluzione balenerà prima o poi.
«Perché potevo essere così sicura di qualcosa, quando non potevo dirlo a nessun altro? Così lavori con il cosiddetto metodo scientifico per mettere ciò che sai nel loro quadro di riferimento dopo che l’hai saputo. Beh, il problema è: come lo sai?»
Questo tipo di approccio alla conoscenza ha portato alcuni colleghi a considerarla una mistica, nel senso peggiorativo del termine. Pare che sia “intimidatoria”, “difficile da avvicinare”, “penetrante ed esigente”, “molto riservata”. Altri ricordano una persona cordiale che si concede di poter essere - anche - eccentrica, festaiola e tiratardi: per i compleanni dei colleghi suona la fisarmonica in laboratorio. Al campus è soprannominata “BigMac” con ammirazione. Nel libro a lei dedicato, The Dynamic Genome, colleghi e amici evocano il piacere di parlare con lei davanti a un bicchiere di Cinzano e una ciotola ricolma di noccioline, i suoi contributi e il sostegno alle proprie attività. Barbara incitava volentieri studenti e colleghi a guardare attentamente la realtà e a inseguire le proprie intuizioni: «Bisogna sempre credere alle nostre osservazioni, per quanto bizzarre possano essere. Forse stanno cercando di dirci qualcosa».
Naomi Pasachoff, Barbara McClintock, Genius of Genetics, Berkeley Heights, N.J. Enslow, 2006
Evelyn Fox Keller, In sintonia con l’organismo. La vita e l’opera di Barbara McClintock, La Salamandra, Il vaso di Pandora (con la revisione scientifica di Milvia Luisa Racchi), Milano, 1987
Barbara McClintock, Autobiografia (in inglese) per il premio Nobel
Barbara McClintock, The origin and behavior of genetic loci in maize, PNAS, 1950
Referenze iconografiche: Barbara McClintock nel suo laboratorio, 1947. Foto di Smithsonian Institution, fonte Flickr.
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023