“Non trema la luce delle stelle. Trema il nostro sguardo, sapendo dell’enorme sforzo che questa luce ha realizzato per farsi vedere”, così scrive il poeta spagnolo Lorenzo Oliván ed è questa la giusta introduzione per Assunta Finiguerra, nata il 30 maggio 1946 a San Fele, un paesino di poche migliaia di abitanti, arroccato sulle cime puntute dell’appennino lucano, in provincia di Potenza, tra il Monte Castello e il Monte Torretta.
È nata nella terra dei briganti Coppa e Tinna, che andarono a ingrossare le file del leggendario Carmine Crocco, del cui sangue è coraggiosa discendente. È nata in un chiassoso isolamento geografico, alla fine del secondo conflitto mondiale, in un sud immobile per costituzione e stordito dalla guerra, naturalmente instradata negli unici ruoli che l’arretrata realtà rurale di quel tempo riservava alle donne: la casa e la terra. “Sò na cafone e figlie de cafune/ me nerguglissce u suanghe ca me cambe/ fiume de ire, vespre e terre sande/ e vònghele ceniére de penziere” (Sono cafona e figlia di cafoni/ m’inorgoglisce il sangue che mi campa/ fiume d’ira, vespro e terra santa/ e tenero baccello di pensiero).
Assunta apprende, secondo codificati canoni, i rudimenti dell’agricoltura, impartita a tutti “i cristiani”, indistintamente, per poter sopravvivere alla fame, e dell’arte sartoriale, attività esclusivamente femminile, a cui si appassiona creando lei stessa i cartamodelli necessari a cucire gli abiti.
Comincia a scrivere per bisogno, con esigui strumenti culturali, ma con una forza travolgente incrementata dai sentimenti di rabbia e d’impotenza che ne hanno permeato l’intera esistenza. E utilizza la lingua che le scende nelle vene dalla nascita, quella con cui si è fatta donna, il dialetto sanfelese:
“Aggia fatte a sarte pe ttanda tiémbe / n’agge chesute de rrobbe e crestijane / tajèrre, soprabbete, giaccune de lane / e ccavezune e ggonne e ggelettiédde” (ho fatto la sarta per molto tempo/ ne ho cucito di abiti alla gente/ tailleur, soprabiti, giacconi di lana/ e pantaloni e gonne e gilet).
Scrive poesie su poesie, senza una precisa organizzazione, in un ritmo viscerale e incalzante che quando si fa parola ha il potere di stordire, come i paesaggi aspri e senza tregua, dalle coloriture forti del Sud. Le piace così tanto la musicalità che inconsapevolmente riesce a produrre e che la mette in contatto con la selvatichezza della natura lucana da indurla ad approfondire e a mettersi a studiare da autodidatta:
"Ije sò na poetessa zappatore/ a terre è mamma mije" (Sono una poetessa zappatora/la terra è mia madre).
Il bisogno di esprimersi artisticamente la porta anche a impratichirsi nel disegno, sua seconda passione. Non è una terra facile quella che le è toccata in sorte, è terra tanto immobile quanto precaria. Nel 1968 una serie di gravi frane colpiscono la parte nord orientale del paese, spazzando via un pezzo di montagna con un grumo di case ad esso aggrappate.
Ma la gente del Sud è avvezza ai disastri. Così accade per il terremoto dell’Irpinia del 1980, che a San Fele lascia senza tetto circa 634 persone.
Seguendo l’ondata migratoria del secondo dopoguerra, quello della ricostruzione, anche Assunta Finiguerra, dopo il matrimonio, parte a cercar lavoro e si trasferisce prima a Roma e poi a Milano.
"Aggia tuzzuluate a ccendenare de porte/ facenne a pezzénde a ciéle apiérte/ e cume u luandernine d’a notte/ mane mane ca facije juorne me stutuaje" (Ho bussato a centinaia di porte / facendo la pezzente a cielo aperto / e come il lanternino della notte / man mano che albeggiava mi spegnevo).
L’intensità passionale della sua parola rasenta i tratti dell’invettiva, addolcita da una consapevole accettazione della realtà nemica e “matrigna”, ma che non è mai una pacifica resa alla lotta per la sopravvivenza. Finiguerra ha una dominanza della parola tale da forgiare versi affilati che guadano nell’oscenità popolare e, come nell’inferno dantesco, riescono a creare efficaci immagini e sonorità dal sapore fermo e antico.
Nella metropoli, libera dagli stretti confini locali, Assunta prende coraggio e cerca un editore.
Il suo primo volume di poesie, che vede la luce nel 1995, nel pieno della maturità, all’età di quarantanove anni, si intitola Se avrò il coraggio del sole; lo pubblica per Basiliskos, da emigrata arresasi alla miseria e alla chiusura ostruzionista ambientale che avvertiva su di sé come una cappa asfissiante, in un rapporto di odio-amore verso la sua terra: "aggia perse l'ànema da quacche parte" (ho perso l’anima da qualche parte).
Alterna all’attività poetica quella della pittura, che mai abbandonerà. Nel 1995 esce Puozzë Arrabbià (La Vallisa, Bari).
Assunta Finiguerra ora è un treno in corsa, la sua parola "numinosa", per dirla con Luzi, ha forgiato maturi strumenti tecnici che le permettono di direzionare la propria arte e di crearsi un pubblico di lettori attento e fedele. Presto cominciano ad arrivare i primi riconoscimenti. Nel 2001 pubblica Rescidde (Zone, Roma); nel 2003 Solije (Zone, Roma); nel 2005 Scurije (LietoColle, Faloppio); nel 2008 Muparije (Edizioni Pulcinoelefante, Osnago); e nel 2008 l’ultima raccolta Tunnicchje, versione dialettale di Pinocchio (LietoColle, Faloppio). Ormai è gravemente ammalata; morirà l’anno dopo, il 2 settembre 2009 e sarà sepolta nella sua odiata amata San Fele.
Sulla sua lapide sono impresse le parole: “Mi regalarono un fazzoletto di gigli/ e i miei occhi prosciugarono i campi”
Nel 2010 esce postumo Tatemije, per Mursia editore.
A rose ca gallegge ndó becchiere
me guarde cu duje uocchje annammarute
pe ddìreme ca pe eḍḍe só fenute
i tiembe de spascézze ndó giuardine.
(La rosa che galleggia nel bicchiere.// La rosa che galleggia nel bicchiere / mi guarda con due occhi amareggiati / per dirmi che per essa son finiti / i tempi di goduria nel giardino).
Oggi è considerata tra le massime voci dialettali moderne, è stata inclusa da Franco Loi nell’antologia Nuovi Poeti Italiani 5 (Einaudi, Torino 2004). Tra i numerosi riconoscimenti che ha conseguito ricordiamo il Premio ‘Pascoli’, il premio ‘Lanciano’ che la vide finalista, e il Premio ‘Città di Trento’, con una segnalazione speciale.
Suoi scritti poetici sono stati recensiti su: «Il sole 24 ore», «Nuova Antologia», «La Vallisa», «Nuova Tribuna Letteraria», «Vernice», «La Gazzetta del Mezzogiorno», altri sono stati citati su: «Periferie», «Pagine», «Input», «La Stampa». La rivista «Kamen» (numero 34) le ha dedicato un'ampia sezione monografica; sulla stessa rivista è apparsa una ricca antologia di suoi testi editi e inediti. Si sono occupati delle sue opere: Franco Loi, Giorgio Barberi Squarotti, Manlio Cortelazzo, Daniele Giancane, Mariella Bettarini, Maurizio Cucchi, Achille Serrao, Gaetano Pampallona. Nel 2006, presso l’Università la Sapienza di Roma, è stata discussa una tesi sulla sua opera.
Di lei ha scritto Mariella Bettarini: “Attraversare e riattraversare i libri di poesia di Assunta Finiguerra è transitare attraverso il fuoco del linguaggio che, per lei, era (è) anche passione, lasciarsi guidare da una Francesca che non dimentica le ferite d’amore né le rinnega, capace del canto più alto quanto più forte è il turbine che la conduce con sé. Questa è finalmente una poesia senza languori, spesso petrosa nella più pura tradizione dantesca, non gridata, non atteggiata, si sarebbe tentati di dire gemmata dal tronco di Saffo: formalmente perfetta e capace di dire gli abissi del sentire e del pensare.”
Voce pubblicata nel: 2022
Ultimo aggiornamento: 2023