“È proprio vero: la casa per orfani è la caserma Simonetta. Le impiegate del Comune mi consegnano un foglio facendomi notare che da una parte sono elencati i nomi dei figli dei fascisti e dall'altra i nomi dei figli degli antifascisti. Immediatamente riecheggiano in me le parole di Carlo Pedroni: “Dovrete far convivere, mettere insieme i figli dei fascisti con i figli degli antifascisti, capire gli uni e gli altri... Nell’incontro con i bambini gli adulti dovranno cercare di non essere influenzati dall’ideologia dei loro genitori, ma da quanto poteva esserci stato di positivo in loro. Fate sentire che abbiamo lottato per avere un mondo migliore". Istintivamente strappai il foglio. Mi recai alla caserma e trovai tutto diverso da quello che avevo immaginato e soprattutto, sperato”.
Ed è qui, con questo gesto, che prende forma la regola dell’istituto Pedroni: stare insieme, maschi e femmine, figli di fascisti e di antifascisti, meridionali e settentrionali, normali e diversi, tutti insieme, uniti “in nome della pace e della libertà”. Comincia così, il 25 aprile 1946, la straordinaria esperienza di una giovane donna di Massa, Adelina Guadagnucci.
Nata nel paese di Castagnetola il 20 dicembre 1913, orfana di padre, cresce con i fratelli, le sorelle e con la madre che gestisce una rivendita alimentare in paese. Appartenenti ad una famiglia di tradizioni democratiche, i fratelli Guadagnucci si mostrano insofferenti al clima del regime e nel 1928 il primo ad espatriare in Svizzera è Bruno, seguito poi da Giovanni, minacciato da squadre fasciste. Non passa molto tempo che anche la sorella Adelina, non ancora ventenne, lascia l’Italia per raggiungere i fratelli. Entra in contatto con gli antifascisti di Ginevra e mantiene relazioni con Bruno e Giovanni che, nel frattempo, si sono spostati in Francia. Nel collegio internazionale di Ginevra, Adelina matura una forte passione civile e acquisisce le competenze di psicologa. Competenze che metterà a servizio del suo Paese appena finita la guerra, creando ad Intra, con il contributo del Soccorso Svizzero Operaio, una casa per orfani: “La guerra era finita. Bisognava ricostruire”.
Ha 32 anni quando diventa “madre” di 43 orfani di guerra, figli di fascisti e di antifascisti, i quali, sotto l’influsso di una educazione laica basata su sani principi civili e democratici, dimenticano l’odio e i rancori.
“Il 25 aprile 1946 arrivarono i bambini, di età compresa tra cinque e quattordici anni. Il primo, ricordo, è stato Giampiero Magni, un piccolino che ancora non aveva compiuto cinque anni. Era accompagnato dalla nonna. Si guardava attorno, smarrito, ma ben poco poteva distinguere poiché, ancora non lo sapevamo, ma i suoi occhi erano malati. Poi via via seguirono gli altri. In un primo momento apparvero intimoriti, quasi spaventati dal grande cortile della caserma e dall’enorme portone. Aveva impressionato me, figuriamoci loro! Li osservavo e sorridevo. Ero molto emozionata all’idea di accogliere quei piccoli orfani: bisognava accettarli col pensiero di aiutarli, questo era il concetto fondamentale. Tuttavia mi chiedevo come poteva apparire ai loro occhi un ambiente tanto squallido, nonostante avessi tentato di spezzare l’aspetto disadorno incollando alle pareti alcune cartoline colorate e ramoscelli di albero. Lo avevo fatto in segno di un primo saluto. È stato commovente. Ricordo l’espressione di sorpresa e di timore di quei bambini che, varcato il cancello, lasciavano cadere a terra il loro fagotto e, superando le prime incertezze, cominciavano a correre all’impazzata nel grande cortile, giocando e ridendo. Così, uno dietro l’altro, insieme. Ebbi l’impressione che in quella corsa sfrenata percepissero la loro libertà, appropriandosene. Quell’ampio spazio era servito sicuramente, in precedenza, per le esercitazioni militari. Erano passati da quel luogo prima gli alpini, poi i fascisti che portavano dentro i partigiani per torturarli e farli parlare. Mai si poteva immaginare che quella caserma, teatro di orrori, avrebbe potuto ospitare un giorno i loro figli, uniti in un percorso di pace e di libertà. Dopo l’impatto col cortile, salimmo insieme nelle stanze e visitammo la nuova casa. La sera di quel 25 aprile! E chi la dimentica?! L’ora della cena, la grande tavola apparecchiata che ci vedeva uniti per la prima volta come una grande famiglia. Mi rivolsi ai bambini con tono amichevole, affettuoso. Dissi loro che se avevano bisogno di qualcosa potevano chiederlo. Se era possibile li avremmo accontentati volentieri. Anche noi avremmo avuto bisogno del loro aiuto nella conduzione della casa. Ecco, era estremamente importante stabilire un rapporto di fiducia reciproca e far capire loro che “c’eravamo”. Ero tesa, ansiosa, stanca, ma soddisfatta. I bambini mangiavano in piatti che potevano rompersi e non di alluminio. Una piccola grande conquista per me molto significativa. Avevano riposto il loro misero fagotto dentro le scatole di cartone sovrapposte, accantonate lungo le pareti delle grandi camerate. Stanchi, i bambini si coricarono. Alcuni comprensibilmente piangevano, per il distacco dalla vita familiare. Dissi loro che io c’ero. E che sarei stata presente, sempre. E li consolai con le mie parole, portando su quei poveri visetti tristi l’ombra di un accennato sorriso. Iniziò così la vita alla caserma.
Dopo l’impatto col cortile, salimmo insieme nelle stanze e visitammo la nuova casa.
La sera di quel 25 aprile! E chi la dimentica?! L’ora della cena, la grande tavola apparecchiata che ci vedeva uniti per la prima volta come una grande famiglia. Mi rivolsi ai bambini con tono amichevole, affettuoso. Dissi loro che se avevano bisogno di qualcosa potevano chiederlo. Se era possibile li avremmo accontentati volentieri. Anche noi avremmo avuto bisogno del loro aiuto nella conduzione della casa. Ecco, era estremamente importante stabilire un rapporto di fiducia reciproca e far capire loro che “c’eravamo”. Ero tesa, ansiosa, stanca, ma soddisfatta. I bambini mangiavano in piatti che potevano rompersi e non di alluminio. Una piccola grande conquista per me molto significativa. Avevano riposto il loro misero fagotto dentro le scatole di cartone sovrapposte, accantonate lungo le pareti delle grandi camerate. Stanchi, i bambini si coricarono. Alcuni comprensibilmente piangevano, per il distacco dalla vita familiare. Dissi loro che io c’ero. E che sarei stata presente, sempre. E li consolai con le mie parole, portando su quei poveri visetti tristi l’ombra di un accennato sorriso.
Iniziò così la vita alla caserma.
La giovane donna lancia con l’Istituto Pedroni una straordinaria sfida educativa rendendosi antesignana di un mondo nuovo, allora sconosciuto nelle forme innovative che l’educatrice tratta. Con Adelina Guadagnucci ha inizio un profondo rinnovamento che avvalora il sistema della scuola pubblica frequentata regolarmente dai suoi ragazzi, improntando nella “sua” prima esperienza di casa-famiglia un’educazione fondamentalmente laica. L’esperienza dura un decennio ma segna profondamente la sua esistenza.
“Ho raggiunto ormai quella fase della vita in cui è più facile scendere nella propria interiorità per compiere una introspezione più intensa, completa. Credo, anzi, ne sono certa, di aver trovato la risposta più vera, adeguata ai miei perché. È lei, mia madre. L’ho ritrovata nella sua profondità e sono stata felice. Aveva trentadue anni quando rimase vedova, sola, con sette orfani di guerra. Avevo trentadue anni quando io, sola, decisi di diventare madre di quarantatre orfani di guerra. Grazie, madre mia, per l’inestimabile eredità che mi hai lasciato. Ne è valsa la pena”.
Tornata a vivere nella sua città, Massa, la giornalista Angela Maria Fruzzetti si è impegnata a raccogliere le memorie di Adelina, dando alle stampe il libro La mia vita per l’Istituto Pedroni. Memorie di Adelina Guadagnucci.
Un piccolo intenso libro che racchiude una delle esperienze più significative sulla ricostruzione del nostro Paese lacerato dalla guerra.
Arriva al Pedroni un bambino di undici anni, proveniente da un istituto di suore. Si chiama Vincenzo e dice spesso : “Io scappo... io scappo”. Il ripetersi di questa parola “scappo” influenza in modo negativo i bambini. È come se volesse dire: “Io qui ci sto male”. Penso invece che questa espressione di Vincenzo voglia significare “qui sono libero, posso andare fuori nella strada come voglio, senza avere paura”. Allora parlo con Vincenzo. Gli spiego che non ha tutti i torti. Che è molto bello sentirsi liberi. Gli dico che se veramente desidera fare questo tipo di esperienza, deve provare a scappare. Noi, qui, lo aspetteremo contenti, perché sappiamo che sta vivendo una prova di libertà che non può che fargli molto bene. Noi non andremo a cercarlo, perché sappiamo che lui saprà trovare la strada del ritorno. Altri tre amichetti, spinti da quella voglia di avventura, si uniscono a Vincenzo e mettono in atto il desiderio di fuga. Per noi educatrici è un momento molto difficile, rischioso e preoccupante. Passano le ore ed incombe la notte. Mi chiamano al telefono e dall’altra parte, la voce preoccupata di un vigile del comune di Pallanza, mi avvisa che lì, da loro, ci sono quattro bambini. Poi si rilassa e, con un pizzico di ironia, mi dice: “Conoscendoti penso che tu abbia buone ragioni, ma i bambini affermano che tu li hai fatti scappare”. Prego allora il vigile di prendere un taxi e di riportare i bambini a casa. Dobbiamo rispettare il patto fatto con loro. Cioè di non andarli a cercare affinché possano fare la loro esperienza fino in fondo. Passa poco tempo e i fuggiaschi arrivano all’istituto infreddoliti e spaventati. Li rifocilliamo con del tè caldo. Li invitiamo ad andare a letto, aiutati nella loro esperienza dalla quale in seguito arriveranno a comprendere l’inutilità della fuga. 1
Vincenzo e mettono in atto il desiderio di fuga. Per noi educatrici è un momento molto difficile, rischioso e preoccupante. Passano le ore ed incombe la notte. Mi chiamano al telefono e dall’altra parte, la voce preoccupata di un vigile del comune di Pallanza, mi avvisa che lì, da loro, ci sono quattro bambini. Poi si rilassa e, con un pizzico di ironia, mi dice: “Conoscendoti penso che tu abbia buone ragioni, ma i bambini affermano che tu li hai fatti scappare”.
Prego allora il vigile di prendere un taxi e di riportare i bambini a casa.
Dobbiamo rispettare il patto fatto con loro. Cioè di non andarli a cercare affinché possano fare la loro esperienza fino in fondo. Passa poco tempo e i fuggiaschi arrivano all’istituto infreddoliti e spaventati. Li rifocilliamo con del tè caldo. Li invitiamo ad andare a letto, aiutati nella loro esperienza dalla quale in seguito arriveranno a comprendere l’inutilità della fuga. 1
Adelina Guadagnucci diventa Ambasciatrice di Pace e la presentazione del libro tocca date significative: 2 giugno festa della Repubblica, 25 aprile festa della Liberazione, 10 dicembre celebrazioni della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, Giornata della memoria del 27 gennaio e per ben due volte coglie lo spirito della Festa della Toscana, con spettacoli teatrali realizzati nelle scuole e in municipio, sempre per gli studenti. Alla scrittrice giornalista Fruzzetti è stato conferito il trofeo Elena Rizzolo alla memoria dei luoghi per il libro Memorie di Adelina Guadagnucci.
Adele Guadagnucci è morta il 22 giugno 2011 all’età di 98 anni. Grazie all’opera e all’iniziativa di Angela Maria Fruzzetti, nel febbraio 2012 è stata avviata la richiesta alle autorità preposte di intitolare la scuola dell’Infanzia di Ortola (Istituto comprensivo Alfieri Bertagnini) ad Adelina Guadagnucci Ambasciatrice di Pace. Con grande commozione, la cerimonia di intitolazione della scuola si è svolta il 20 maggio 2014 con una targa posta sul muro esterno della scuola, alla presenza di studenti, genitori e autorità locali.
Voce pubblicata nel: 2015
Ultimo aggiornamento: 2023