«Mai frequentato una scuola di scrittura creativa in vita mia. Mi fanno paura; il più delle volte sono dei gruppi di supporto per quelle persone che credono che scrivere sia terapeutico. Scrivere è l’esatto opposto della terapia. La cosa migliore, l’unico allenamento consiste nel leggere i libri degli altri». [1]
Questo stralcio di un’intervista lascia intravedere molto della poetica e della personalità di Zadie Smith, dominata da due caratteristiche proprie di ogni vero scrittore: la curiosità e l’onestà verso il proprio lavoro.
«Tra te e il mondo, scegli il mondo»: leggendo i romanzi e i saggi della Smith torna sempre in mente questa frase di Kafka.
Nata da madre giamaicana e padre inglese, Zadie Smith è cresciuta nel quartiere di Brent, a Nord ovest di Londra, e lì ha frequentato la scuola pubblica. A quattordici anni decide di cambiare il suo nome da Sadie in Zadie per aggiungere un tocco esotico, crearsi un’identità diversa. Balla per anni il tip tap sognando di diventare una ballerina di musical («ho smesso quando mi sono accorta che i musical non li faceva più nessuno», ha dichiarato ironicamente), ma a diciott’anni si trasferisce al King’s College di Cambridge per studiare letteratura inglese, col progetto di diventare una giornalista o una docente universitaria. Legge moltissimo e studia i suoi autori preferiti: Kafka, George Eliot, Nabokov ma soprattutto Edward Morgan Forster, massimo ispiratore dei suoi romanzi.
Osserva (molto) e scrive (poco). Pubblica alcuni dei suoi racconti nelle antologie degli studenti di Oxford e Cambridge e incontra il suo miglior editor (nonché futuro marito), Nick Laird. Nick non è l’unico ad accorgersi del suo talento: un editore nota i suoi racconti e le propone di scrivere un romanzo. In risposta lei invia le prime ottanta pagine di quello che sarebbe poi divenuto Denti Bianchi.
Viene fatta un'asta e diversi importanti editori cercano di ottenere i diritti su un romanzo ancora tutto da scrivere: un caso surreale e mai accaduto nella storia dell’editoria fino a quel momento.
«Denti bianchi all’inizio era un racconto di venti pagine che si è espanso naturalmente» – ha dichiarato.
Quell’iniziale racconto si è gradualmente trasformato in un romanzo ambizioso e innovativo per struttura, stile e cura nel tracciare i personaggi. Percorrendo quasi tutto il secolo, Denti Bianchi racconta la storia dei due amici, Archie (inglese) e Samad (bengalese e musulmano osservante), e delle loro strampalate famiglie.
Un altro vero e proprio personaggio del romanzo è Londra, che viene descritta nei suoi cambiamenti e contraddizioni con un’ abilità degna di Dickens. Il tempo assume invece nel romanzo una dimensione fluida e polimorfica: ognuna delle quattro macrosezioni presenta, infatti, dei balzi in avanti e all’indietro nel secolo, a sottolineare corsi e ricorsi storici.
Come anche i suoi successivi romanzi, Denti Bianchi è scritto in terza persona («sono cresciuta con la grande tradizione del romanzo inglese, e questa soluzione mi è sembrata la più naturale del mondo»): fin dal suo esordio la nostra autrice si è dimostrata molto abile nel saper gestire e far intrecciare le vicende e le voci di personaggi molto diversi per età e retroterra culturale. Ognuno di essi ha una sua propria voce, un particolare modo di parlare: ad esempio, il lessico snob dei Chalfen – famiglia ricca e figlia dei fiori – si differenzia profondamente dallo slang dello scapestrato figlio di Samad, Millat.
Lo stile di Zadie Smith si presenta come estremamente curato, forse fin troppo: ogni personaggio è racchiuso in un perfetto equilibrio di parole e frasi. La sovrabbondanza di aggettivi, le frequenti digressioni su fatti secondari e un certo massimalismo che caratterizza la struttura di questo romanzo hanno fatto coniare al critico James Wood una definizione, quella di “realismo isterico”, che sarebbe poi stata accettata dall’ autrice stessa.
Denti Bianchi viene da molti descritto come un romanzo sull’integrazione razziale, ma è in realtà la rappresentazione ossessiva di qualcosa di più oscuro e profondo: la dura, annosa ricerca della propria identità [2].
Smith sembra trovare due possibili strade per contrastare le forze che scardinano la ricerca della propria identità individuale: si sopravvive o con un amore profondo (per qualcosa o qualcuno) o con l’ironia. Un’ironia del tutto inglese, che spesso riesce a cambiare in meglio delle situazioni spaventose e a far amare dei personaggi che risultano a prima visti meschini o antipatici. Un caso lampante di questo processo lo troviamo nel terzo romanzo della Smith, On Beauty (tradotto in italiano come Della Bellezza, Einaudi 2005): scritto dopo un soggiorno annuale ad Harvard, il romanzo – apertamente ispirato a Casa Howard di Forster – racconta della crisi (sentimentale e lavorativa) di Howard Belsey, docente inglese di storia dell’arte trapiantato negli Stati Uniti per motivi accademici, e della sua famiglia.
Quasi tutti i personaggi (esclusa Kiki, la generosa e intelligente moglie di Howard) sono delle persone orribili, ma Smith riesce a renderli simpatici e loro stessi riescono a superare le loro tremende vicissitudini grazie all’ ironia e ad una sorta di linguaggio segreto, un lessico familiare (o di coppia) che soltanto loro conoscono.
Rispetto al più caotico e affollato Denti Bianchi, vera testimonianza e rigurgito delle innumerevoli letture della giovane autrice, questo terzo romanzo rappresenta davvero il punto di equilibrio e maturità espressiva dell’itinerario creativo della scrittrice.
Dopo diversi romanzi importanti (il secondo è L’uomo autografo, Einaudi 2003, storia di un collezionista ebreo cinese scritta dopo un periodo di “blocco dello scrittore”) di recente Zadie Smith si è dedicata alla saggistica e alla critica militante.
Numerosi suoi interventi sui fenomeni di massa della realtà contemporanea – dal ritorno alla forma saggio per molti scrittori fino al ruolo negativo di Facebook [3] – sono stati pubblicati sul «Guardian» e sulla «New York Review of Books» e di recente è uscito un suo libro di saggistica, Changing my mind (tradotto in italiano come Cambiare Idea, Minimum Fax, 2010) [4].
Attraverso le peculiari e diversissime forme della recensione cinematografica, del racconto di viaggio, del saggio teorico di argomento letterario, la scrittrice riesce a portare il lettore in viaggio nella sua mente e a mostrare come niente per lei sia banale o dato per scontato.
Qualsiasi esperienza percettiva è, per Smith (grandissima ammiratrice e amica di David Foster Wallace), motivo per indagare con ironia gli aspetti più dolorosi del reale e parallelamente riflettere sulle potenzialità e le modalità del rapporto tra i processi mentali associativi e scrittura.
Ma come accade nei quadri di Rembrandt – il pittore studiato dal protagonista di On Beauty – negli scritti di Zadie Smith si percepisce soprattutto la presenza e l’amore per il corpo, il garbuglio di sentimenti, desideri e paura.
NOTE
1. Intervista a Zadie Smith agli esordi.
2. I. Vivan, L’impatto dell’ibridazione postcoloniale sulla britannicità nella letteratura britannica.
3. Z. Smith, Generation Why?.
4. E. Morra, Impressioni su Cambiare idea, Fax Magazine, maggio.
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Z. Smith, L'uomo autografo, Einaudi, 2003
Z. Smith, Della Bellezza, Einaudi, 2005
Z. Smith, Cambiare Idea, Minimum Fax, 2010
Si vedano anche le belle introduzioni scritte dalla Smith a Brevi interviste con uomini schifosi e La ragazza dai capelli strani di David Foster Wallace, e quella a Through the Looking-Glass di Lewis Carroll
Per uno sguardo complessivo sul fenomeno della letteratura postcoloniale si veda P.Bertinetti, Literatures in English (pp. 311-350), in English Literature. A short history, Einaudi, 2010
Referenze iconografiche: Zadie Smith (110 Camera Street Portrait), New York. Foto di B.C. Lorio, fonte Flickr. CC BY NC ND 2.0
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023