“In iraniano si chiamano shirini dei dolci tipici, e mi piace che il mio nome abbia la stessa radice”
così scrive Shirin Ebadi nel primo capitolo de Il mio Iran: una vita di rivoluzione e di speranza. Un libro autobiografico che vuole essere un contributo al dialogo, spesso difficile, tra mondo musulmano ed Occidente.
Shirin nasce il 21 Giugno del 1947 ad Hamadam, in una famiglia che non faceva differenze tra figli maschi e femmine; i suoi genitori ripartivano egualmente affetto, attenzione e disciplina. Solo crescendo Shirin capì di essere una privilegiata, poiché nella gran parte delle famiglie iraniane i figli maschi godevano uno status speciale, avevano innumerevoli privilegi ed erano anche più amati perché depositari delle future ambizioni familiari. A tal proposito così scrive:
“Solo quando fui molto più grande capii che l’idea dell’uguaglianza tra i sessi si era impressa dentro di me in primo luogo grazie all’esempio avuto a casa...vidi come la mia educazione mi avesse risparmiato la scarsa autostima e la dipendenza acquisita dalle altre donne, cresciute in famiglie più tradizionali. Il sostegno di mio padre alla mia indipendenza, dai giochi di bambina fino alla decisione di diventare giudice, mi ha instillato un senso di fiducia nelle mie capacità che non ho mai percepito consciamente ma che alla fine sono giunta a considerare come l’eredità più preziosa.”
Shirin si laurea in Legge nel 1969 diventando così la prima donna giudice in Iran. Quando Khomeini sale al potere è costretta a dimettersi dal suo incarico, viene minacciata più volte ed infine arrestata. Le sue dichiarazioni non sono gradite al regime. Shirin afferma continuamente che una donna per avere successo nel suo Paese deve essere almeno “due,tre volte più brava di un uomo” e non tollera il diffuso detto che “in Iran una donna vale come l’occhio strabico di un uomo”. Si batte quotidianamente per strappare le sue connazionali al regime oscurantista in cui il valore della vita di una donna era metà di quello di un uomo, infatti se, per esempio, una macchina investiva per strada una coppia, il compenso dovuto alla famiglia dell’uomo era doppio rispetto a quello che spettava ai familiari della donna. E dove una testimonianza femminile in un’aula del tribunale contava la metà di quella maschile. Lei stessa scrive: "Le nuove norme mettevano indietro l’orologio di millequattrocento anni, tornando agli albori della diffusione dell’Islam quando lapidare le donne per adulterio e mozzare le mani ai ladri erano considerate condanne adeguate”.
Il suo impegno costante è stato quello di modificare le leggi in favore del genere femminile, restando però sempre nella cornice del rispetto per l’islam, trovando le giuste interpretazioni e stigmatizzando le interpretazioni artatamente volte a colpire le donne.
Quando nel 1988 termina la guerra fra Iran ed Iraq Shirin amaramente scrive: "Chi fu il vero vincitore? non l’Iran con l’economia in rovina, due terzi delle province devastate, i soldati vittime delle armi chimiche di Saddam che giacevano in ospedali speciali, con i corpi piagati che continuavano a bruciare. Non l’Iraq, la cui popolazione portava i segni della guerra, con i curdi trucidati con il gas nervino. Chi furono, allora, i vincitori? i trafficanti d’armi. Le aziende europee che vendettero a Saddam gli agenti chimici, le ditte americane che cedettero armi ad entrambe le parti. Loro sì che ammassarono delle fortune, i conti bancari si gonfiarono e le loro famiglie, a Bonn come in Virginia, rimasero indenni”.
Nel 1989, alla morte di Khomeini, le donne in Iran ripresero a lavorare e studiare, e Shirin riprese ad esercitare la sua professione di avvocata. Così “fotografa" quel periodo: "Il privilegio di una laurea non eliminò la discriminazione sessuale, gelosamente custodita nella nostra cultura e nelle nostre istituzioni, ma instillò nelle donne iraniane qualcosa che, nel tempo, penso, trasformerà il nostro Paese: una consapevolezza viscerale della loro condizione di oppresse...tutte queste donne non erano più disposte a retrocedere ai ruoli tradizionali, ad accantonare i titoli di studio e fingere di non avere certe aspettative".
Nel 2003 le viene assegnato il Nobel per la pace, diventando così la prima donna iraniana e la prima musulmana ad ottenerlo. Dichiara subito che il premio non era stato assegnato a lei come individuo, ma a lei come simbolo: "Dal giorno in cui ero stata privata dalla possibilità di essere giudice, agli anni in cui avevo lottato nei tribunali rivoluzionari di Teheran, mi ero sempre ripetuta un ritornello: una interpretazione dell’islam che sia in armonia con l’uguaglianza e la democrazia è un’autentica espressione di fede, non è la religione a vincolare le donne, ma i precetti selettivi di chi le vuole costrette all’isolamento...".
Quando rientra da Oslo su un volo Iran Air, il comandante la fa sedere in prima classe e annuncia che quello è il volo della pace. Atterrata in patria la prima cosa che vede è il volto di sua madre: "Presi le sue mani morbide e rugose nelle mie e le premetti contro le mie labbra. Poi notai la folla che si estendeva a perdita d’occhio...era composta per lo più da donne, lo si vedeva dai veli che avvolgevano le loro teste. Alcune indossavano il chador nero ma la maggior parte portava veli di colori brillanti, e i gladioli e le rose bianche che sventolavano nell’aria, balenavano nell’oscurità della notte.”
Ma Shirin nel suo Paese è rimasta una figura “scomoda” per la sua opposizione al regime. Oggi vive in esilio in una località segreta ma continua a battersi per l’uguaglianza di genere in tutte le parti del mondo dove i diritti delle donne vengono quotidianamente calpestati. Il governo iraniano le ha sottratto tutto, anche la medaglia del Nobel ed ha sottoposto a tortura suo marito e una sua sorella. "Mi hanno preso tutto, ma mi è rimasta la voce" e questa sua dichiarazione ci riporta alla prima pagina del suo libro La gabbia d’oro, edito nel 2008, dove troviamo scritta una frase del rivoluzionario iraniano Alì Shariati "Se non potete eliminare l’ingiustizia, raccontatela a tutti".
Così è stata definita dal «The Observer»: "Fuori e dentro l’aula del tribunale Shirin Ebadi è una forza della natura che lotta con energia inesauribile per difendere i diritti umani."
Attualmente, a sessantasei anni, continua a ripetere "Saranno le donne a cambiare l’islam ed io tornerò a fare l’avvocata in Iran".
Ha pubblicato nel 2016 “Finchè non saremo liberi” ed. Bompiani, dove racconta la sua lotta per l’affermazione dei diritti umani.
Insieme ad altri giuristi ha chiesto l’istituzione di una Commissione d’Inchiesta sulla repressione della recente rivolta in Iran (2022).
Shirin Ebadi, La gabbia d’oro, BUR Rizzoli 2008
Shirin Ebadi, Finchè non saremo liberi, Bompiani 2016
Ester Rizzo, Le Mille. I primati delle donne, Navarra Editore 2016
Referenze iconografiche: Shirin Ebadi all'evento Fronteiras do Pensamento São Paulo, nel 2011. Autore: Fronteiras do Pensamento. Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic license.
Voce pubblicata nel: 2016
Ultimo aggiornamento: 2023