In un vaso attico del 430 è raffigurata una donna intenta a leggere un volume su cui compare il nome di Saffo. Attorno a lei un gruppo di persone ascolta.
L’immagine fa pensare a una sorta di lettura pubblica e l’attenzione è grande. Come mai, ci si può chiedere, la scelta dell’artista che ha dipinto quel vaso è caduta su quel nome? Evidentemente si trattava non solo di un nome noto, ma anche di un nome amato. La predilezione per Saffo, protrattasi per molti secoli, fa sì che i suoi testi, anche se frammentari, siano giunti a noi. Di questa acquisizione dobbiamo ringraziare i frammenti papiracei, perché alla conclusione dell’epoca bizantina l’opera di Saffo risultava perduta.
Saffo nacque probabilmente a Ereso, nell’isola di Lesbo, situata nel settore nord-orientale del Mare Egeo, ma trascorse gran parte della sua vita a Mitilene tra il VII e il VI secolo. Fu contemporanea del poeta Alceo, un suo compatriota che sicuramente la conosceva e la ammirava, dal momento che la apostrofa con queste parole «Saffo divina, chioma di viola, sorriso dolce come il miele« (I T58, fr.61). Proveniva da una famiglia aristocratica e proprio per tale motivo, a causa delle contese politiche che dilagavano nell’isola in quegli anni, fu costretta a trascorrere un periodo d’esilio in Sicilia. La famiglia era ricca ma si dice che i suoi beni fossero stati dilapidati dal fratello Carasso, che era stato irretito dalla cortigiana Dorica a Naucrati, in Egitto, dove si era recato per commerciare. Testimonianze di questa diceria possono essere ricavate dal fatto che in una preghiera di Saffo (di cui è rimasto un frammento) la donna invoca Afrodite e le Nereidi perché aiutino il fratello a fare ritorno a casa per la gioia degli amici, la rovina dei nemici e il conseguente recupero del rango che per nascita gli spettava.
Sappiamo che Saffo ebbe un marito, Cercila di Andro, di professione mercante, e una figlia, Cleide. La tradizione dice che si uccise gettandosi dalla rupe di Leucade perché respinta dal giovane Faone. Quest’ultima notizia viene però confutata da due particolari noti, anche se difficilmente testimoniabili. Il primo fa riferimento al fatto che Faone era una figura mitica legata alla cerchia di Afrodite, che Saffo aveva trattato nelle sue opere. Il secondo è che Saffo era sospetta di omosessualità e che alcuni frammenti, recentemente pubblicati (I T50, fr. 94) lasciano trasparire che in lei l’ardore sentimentale fosse inferiore al piacere dei sensi. Della sua fine terrena non v’è documentazione, ma il fatto che in alcuni frammenti si legga del rimpianto di Saffo per la giovinezza ormai lontana, è possibile desumere che sia giunta a una certa età.
Quello che è certo è che fu artisticamente prolifica. I grammatici alessandrini hanno sistemato la sua copiosa produzione in ben nove libri: odi in strofe saffiche, carmi in pentametrici eolici, asclepiadei maggiori, tetrametri ionici, epitalami in metri diversi. Saffo pur prestando grande attenzione alla forma riesce ad esprimersi con grande semplicità per manifestare sentimenti intensi e coerenti. Esempio lampante di queste sue caratteristiche è l’ode di invocazione a Afrodite che ci è giunta completa (I T$), fr. 1). In questa ode Saffo, sofferente per un amore non corrisposto, si rivolge alla dea per averne aiuto, come in altre occasioni. Si potrebbe dire che Saffo sia una psicologa dell’amore, pure le sue considerazioni sono espresse in modo da non turbare, ma addirittura da esaltare, il senso della bellezza. Il gusto del bello rintracciato anche nei dettagli dell’esistenza quotidiana potrebbe essere frutto della sua conoscenza della cultura orientale, facilitata dalla vicinanza geografica dell’isola di Lesbo con la Licia. L’amore per Saffo è un tormento, ma anche la manifestazione massima della gioia di vivere, che nello spirito greco si pareggia con il dolore innato al fatto di esistere.
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023