Pacifica Citoni, sposata Di Castro, era un’ebrea che viveva nel ghetto di Roma nel XVII secolo. Di lei non conosciamo né la data di nascita e né quella di morte, ma sappiamo che era una donna comune, poverissima. Pacifica viveva nel ghetto con il marito, Samuel Di Castro, e quattro figli, due avuti da un precedente matrimonio e due da Samuel: Angelo di 6 anni e Ricca di quattro. Dai cognomi possiamo ipotizzare le loro origini geografiche: i Citoni presumibilmente provenivano dal Sud d’Italia, mentre i Di Castro erano di origine sefardita. Pacifica è una donna tenace. Secondo le poche ma esaurienti fonti a nostra disposizione (di cui diremo più avanti), sappiamo che era una donna ostinata, consapevole del prezzo da pagare per certe scelte, ma ben determinata a restare fedele alla sua identità religiosa.
Siamo negli anni bui della Roma papalina, nei quali, in seguito anche alla Controriforma e all’Istituzione del Tribunale dell’Inquisizione, la persecuzione contro i “non cattolici” è ancora particolarmente feroce. In Italia però, fin dal Medioevo, a differenza di altri paesi d’Europa (si pensi alla diaspora in Spagna del 1492), la presenza ebraica è nel complesso accettata e tollerata poiché le leggi romane su cui si basava il diritto consideravano gli ebrei cittadini dell’Impero a tutti gli effetti, facendo riferimento ad una sorta di assimilazione tra la tradizione romana e quella teologica della Chiesa.
La Controriforma inasprisce però le contromisure anche nei confronti degli ebrei e a Venezia, per esempio, viene costruito il primo ghetto dove gli ebrei sono costretti a vivere. Anche a Roma ne viene allestito uno, chiamato anche “serraglio”, nei pressi del rione Sant’Angelo, dove vivevano già molti ebrei, e che nel corso dei secoli subirà variazioni, ampliamenti, modifiche. Lo attesta la Bolla pontificia del 14 Luglio 1555 “Cum nimis absurdum”. Il ghetto durò più di 300 anni (venne ufficialmente chiuso nel 1870, con la proclamazione dell’Unità d'Italia dopo la breccia di Porta Pia): questo comportò che gli ebrei venissero esclusi dalla quotidianità di una città in cui vivevano da un millennio circa. La bolla elencava inoltre i divieti.
Gli ebrei, in un primo momento, pensano a provvedimenti temporanei, ma quando capiscono che non è così, rafforzano ulteriormente i loro legami pur di far fronte alle nuove e pressanti difficoltà. All’interno della Comunità ebraica, molto eterogenea per lingua, provenienza, cultura, usi e costumi e pertanto con la necessità di un’organizzazione interna, esisteva, infatti, una fitta rete di istituzioni sociali, religiose, culturali che sovrintendevano l’esistenza delle persone attraverso una sorta di governo d’ élite che s’irrigidisce ulteriormente dopo le restrizioni.
Per comprendere meglio le vicende di Pacifica è dunque necessario contestualizzarle nella Roma di quei tempi. Nello Stato della Chiesa, nel 1555, si assiste ad un inasprimento delle posizioni, soprattutto con il cardinal Carafa divenuto Paolo IV, ostile a ebrei e protestanti. In particolare la Chiesa attua una sistematica azione di conversioni forzate e di battesimi.
Si tratta di un fenomeno relativamente nuovo e che produce una politica conversionistica che trasforma fortemente le relazioni fra persone e luoghi. Con papa Urbano VIII Barberini si vede un aumento di tributi, pene e persecuzioni anche fisiche. Nel 1656 lo scoppio della peste comporta un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita nel Ghetto, acuisce la miseria e causa la morte di 400 ebrei su 5000 abitanti.
In questo clima si fa strada sempre più incisivamente la prassi conversionistica: costringere gli ebrei alla conversione e al battesimo, con in cambio delle concessioni (le conversioni forzate sono un fenomeno sviluppatosi nel tardo Medioevo e per tutta l’età moderna, mentre diventa meno frequente nell’Ottocento). Nessuna residenza coatta, possibilità di lavoro scelto e libero, risorse materiali, privilegi vari, fine di soprusi e privazioni (pagamenti di tributi, eliminazione dei colpi di frusta o del rogo per avere intrattenuto relazioni con cristiani). Convertirsi era dunque un modo, per gli ebrei, di sottrarsi alla miseria e sopravvivere, anche se comunque fu un fenomeno irrisorio, da un punto di vista numerico.
Spesso, come dicevamo, le conversioni erano imposte, ma non quella del marito di Pacifica, Samuel, che si converte al cattolicesimo il 4 Novembre 1694 e che, esercitando il suo diritto alla patria potestà, obbliga alla conversione anche i suoi 4 figli. Samuel, come era usanza, assume una nuova identità e diventa Carlo Antonio Fadulfi, presumibilmente come il Cardinale Giuseppe Sallustio Fadulfi, suo garante per il battesimo.
La maggior parte delle persone, dunque, veniva costretta alla conversione o succedeva anche che il neofita offrisse, “favor fidei”, i congiunti o semplici conoscenti. E questo capita a Pacifica che viene prelevata e condotta, senza potersi sottrarre, nella Casa dei Catecumeni1 nell’attuale rione Monti, oggi sede universitaria, adiacente a via dei Neofiti che ne testimonia l’antica funzione), fondata da Paolo III nel 1543, e in altre sedi, per un prolungato lavaggio del cervello.
Per Pacifica il neofita che vorrebbe costringerla alla conversione è dunque il marito, ossessivo e violento, che la sottopone ad un calvario fra la Casa dei Catecumeni, il Conservatorio della Clemenza2 e la Casa dei Sostituti fiscali, quasi tutti luoghi, allora, di detenzione che, per somma beffa, gli ebrei erano costretti a mantenere con apposite tasse e dove Pacifica fu portata più volte, ma dove non si piegò mai. Pacifica, come dicevamo all’inizio, non accettò mai di convertirsi e strenuamente riuscì a rimanere fedele alla sua identità religiosa e culturale.
Dopo la lunga “prigionia”, Pacifica riesce a tornare a casa dove però ad un certo punto subisce l’aggressione e la violenza del marito apostata, che, nonostante il divieto di avvicinamento ad una ebrea, in quanto ormai cattolico, si introduce nella loro abitazione e la violenta, con la speranza che, una volta rimasta incinta, dopo una segregazione di 9 mesi, consegni alla Chiesa il neonato, frutto di una relazione con un cattolico, come prevedeva la prassi chiamata dagli storici “il ventre pregnante”. Pacifica, come purtroppo molte altre, subisce una doppia violenza, quella degli uomini, nel suo caso del marito, e quella della Chiesa della Controriforma. Ma Pacifica non rimane incinta.
Pacifica continua ad essere perseguitata e durante un periodo di quarantena Crisante Cozzi, rettore della Casa dei Catecumeni e feroce procacciatore di anime, esasperato dalla sua resistenza, fa chiamare i suoi figli che mostra alla donna, nella speranza che questa si commuova e accetti di convertirsi. Lei resiste, torna nel ghetto senza figli e senza marito, ma coerentemente ebrea.
La storia di Pacifica non è unica: la romana Anna Del Monte ha lasciato nel suo diario una preziosa testimonianza della sua esperienza nella Pia Casa dei Catecumeni e della sua strenua opposizione ai tentativi di conversione: entrambe manifestano un forte e non comune attaccamento alla loro identità religiosa e culturale.
Come dicevamo all’inizio, sappiamo poco di Pacifica, sebbene possediamo tanto materiale sul fenomeno delle conversioni forzate, ma quel poco è molto ben documentato e oggi divulgato grazie al paziente e prezioso lavoro di una giovane donna, ebrea, Susanna Limentani, che per caso si è imbattuta in alcune carte conservate presso l’A.S.C.E.R. (Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma). Fra queste è stata come attratta da un memoriale contenuto nei Faldoni dell’Archivio Medievale e Moderno del fondo dell’U.E.R. (Università degli Ebrei di Roma).
Questo memoriale, di 4 pagine, è stato redatto dal notaio Cristiano Pini ed indirizzato al tribunale della Congregazione del Sant’Uffizio per conto della signora Pacifica Di Castro, presumibilmente in data anteriore al 9 Giugno 1695. Finora inedito, contiene molte informazioni sulla vicenda della nostra, ma anche sul fenomeno delle conversioni forzate e più in generale sulla situazione degli ebrei in quegli anni. La studiosa, autrice della scoperta, laureata in Studi ebraici presso il corso di Laurea dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, attinge dunque al documento per ricostruire la storia di Pacifica, ne fa la sua tesi di laurea che poi diventa un libro. Per Susanna Limentani urgente è stata la necessità di denunciare a tutti la violenza patita dagli ebrei, a Roma, in 300 anni
[Pacifica]non ha fatto nulla per farsi conoscere nella sua vita, a distanza di 300 anni può far cambiare qualche cosa, anche un poco.
EDOARDO SASSI, La fede incrollabile dell’ebrea del ‘600, in “Letture – Corriere della Sera” di Domenica 28 Marzo 2021 MARIO PACIFICI, La pedina, Gallucci editore 2023
MARINA CAFFIERO, Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei Papi, Viella 2004, Collana La corte dei Papi
SUSANNA LIMENTANI, Opporsi alla conversione, Pacifica Di Castro ebrea romana del XVII secolo, testo autoprodotto
Voce pubblicata nel: 2024