All’indomani dell’uscita del suo libro La mutazione femminile. Conversazioni con Alberto Moravia sulla donna, Carla Ravaioli definisce le opere di Lydia Sansoni esposte nell’estate del 1975 alla Saletta Raffaelli, a Forte dei Marmi «Il primo manifesto visivo del femminismo».1 Difficile trovare parole altrettanto calzanti di queste, pronunciate in occasione dell’affollato dibattito su femminismo, arte e letteratura che segue l’inaugurazione della mostra, tra le provocazioni di Carmelo Bene e la presenza benevola di Eugenio Montale.
Le opere di Sansoni, già proposte nell’aprile 1975 alla Galleria Alberto Schubert di Milano, hanno infatti l’incisività e l’immediatezza visiva dei migliori manifesti politici e non lasciano spazio a dubbi riguardo al loro orientamento ideologico. Quelle di Lydia Sansoni sono, e vogliono essere, opere femministe: nascono in seno alle lotte di liberazione della donna degli anni Settanta e di questa esperienza sono conseguenza e frutto.

Dopo una pausa durata all’incirca due decenni, Sansoni, che aveva esordito nel 1953, appena ventitreenne, con una mostra personale alla Galleria del Pincio a Roma,2 introdotta da Cesare Zavattini e Marino Mazzacurati, negli anni Settanta torna a esporre e a interrogarsi sull’arte e il suo valore politico.3 La spinta nasce dall’urgenza delle nuove istanze espresse dal femminismo, alle cui lotte l’artista partecipa con entusiasmo, mettendo in campo un’accesa creatività: disegna illustrazioni e vignette per le riviste del movimento, progetta ‘costumi’ e apparati scenici per le manifestazioni, è autrice del volume La prima è stata Lilith (1976),4 tra i primissimi esempi di libro a fumetti femminista prodotto in Italia.
Sue opere compaiono sulle copertine di “Effe” 5 e intorno a lei ruota l’esperienza di “Strix. Giornale di fumetti e altro, fatto da donne”, rivista di bandes dessinées di cui è direttrice responsabile insieme ad Antonella Barina, uscita in soli tre numeri tra il 1978 e il 1979, grazie all’impegno di tredici autrici, in gran parte illustratrici e fumettiste, riunitesi in una cooperativa di donne.6

Alla domanda rivoltale in occasione della mostra alla Galleria Schubert sul «perché una “pittura femminista”?», Sansoni risponde: «Il mio è un discorso di protesta. Vuole essere una denuncia della condizione della donna e dello sfruttamento cui è ancora sottoposta».7 La sua è una risposta diretta e schietta, come le sue opere di questi anni: scatole di legno entro le quali l’artista assembla piccoli objets trouvés, frutto di lunghe battute di caccia tra le mura domestiche, alla ricerca di bigodini, aghi e ditali da cucito, pagliette di ferro per pulire le stoviglie, strofinacci, soldatini, bilie e pupazzetti sottratti alla cesta dei giochi dei suoi due bambini.

Sansoni preleva oggetti ordinari, casalinghi, e li trasforma in racconti allucinati sulla condizione della donna all’interno della famiglia borghese occidentale, con i suoi ruoli rigidamente codificati. Così nell’assemblage La moglie ideale (1975), parodia della donna ideale tratteggiata nell’antichità da Senofonte, 8 Sansoni mette in scena il prototipo della sposa perfetta, quella, cioè, che non parla, non sente e non vede.
Nel trittico Sansoni racchiude tre modelli di femminilità (così per com’è stata ed è tuttora costruita dal patriarcato), che corrispondono ad altrettante aspettative sociali da soddisfare: la donna ‘operaia della casa’, con in grembo il telaio da ricamo; la donna ‘amante’, con lingerie sexy, tacchi a spillo e un temporizzatore elettronico, di cui, possiamo stare certi, sarà l’uomo ad accendere e spegnere l’interruttore; la donna ‘romantica’, con un cuore di confetti rossi pronto per essere mangiato. Negli assemblage Sansoni si muove, prendendo a prestito le parole di Dacia Maraini, «con la sicurezza di chi crede nel valore politico del “fare pittura”, […] si accanisce, insolente e seducente, a fare scaturire le grottesche figure della rovinosa farsa dei ruoli sessuali e sociali che hanno inquinato la storia».9

La naïveté di queste opere, simulata ma credibile, ci riporta al mondo incantato dell’infanzia, a cui Sansoni guarda da vicino sin dall’esordio, in opere come L’Ecole des Oeufs o Uova al giro, esposte entrambe nel 1953 nella già ricordata personale alla Galleria del Pincio, dove l’uso dell’oggetto trovato, del ‘dispositivo scatola’ e del montaggio sono già presenti e richiamano alla mente i microcosmi di Joseph Cornell. Il debito nei confronti dell’oggetto surrealista e del polimaterismo di Enrico Prampolini, con cui Sansoni studia scenografia all’Accademia di Belle Arti di Brera, è evidente. Questi riferimenti torneranno, mutati di segno, nelle opere degli anni Settanta – nelle Scatole come pure nella successiva serie dei Setacci, esposta nel 1978 alla Librellula. Libreria delle donne di Bologna – dove il meraviglioso surrealista va di pari passo con l’ossessione per le figure femminili crocifisse, la rappresentazione di corpi robotizzati, la messa in scena di donne-automa forgiate per assolvere ai compiti del lavoro produttivo e riproduttivo.

I corpi ideati da Sansoni sono a loro volta ‘corpi-scatola’, aperti, lacerati, che si offrono all’altrui vista e contengono altri corpi: quelle imprigionate nelle scatole di Sansoni, sono donne che hanno sì il potere di generare, ma di generare figli destinati a morire in guerra (Conferenza al vertice, 1974) o messe all’indice per avere dato alla luce soltanto figlie femmine (Colpevole, 1975). Il fiabesco, nelle sue opere, è dunque inteso in senso assai diverso rispetto a quello che permea le scatole realizzate nello stesso scorcio di anni da Giosetta Fioroni (presente alla mostra alla Librellula),10 dove sono la natura e gli spiriti silvestri le fonti privilegiate per racconti visivi che evocano la magia e le leggende popolari.
Volendo proporre un confronto, è forse più utile volgere lo sguardo oltreoceano alle opere di Betye Saar, artista afroamericana attiva in California dalla seconda metà degli anni Sessanta, autrice di assemblage ispirati all’opera di Cornell, ma caratterizzati da un’attitudine politicamente radicale, femminista e antirazzista. Benché in maniera indipendente l’una dall’altra, Saar e Sansoni condividono la stessa concezione militante dell’arte: entrambe partono da sé e dal loro vissuto per demistificare la farsa dei ruoli identitari della cultura patriarcale.

Note


1 La frase è riportata nei numerosi articoli pubblicati su riviste e quotidiani in occasione della mostra alla Galleria Comunale d’Arte Moderna Saletta Raffaelli, Forte dei Marmi, agosto-settembre 1975. La rassegna stampa della mostra è conservata a Roma presso l’archivio personale dell’artista. Nell’album delle firme della mostra compare la scritta di Ravaioli: «Evviva Lydia, autrice del primo “Manifesto femminista visivo”».
2 La mostra si svolge tra il 18 luglio e il primo agosto del 1953. L’artista, in questa occasione, si presenta come Lydia Vittorini, usando il cognome del marito, Giusto Vittorini, primogenito di Elio Vittorini, morto giovanissimo nel 1955.
3 Negli anni Cinquanta e Sessanta Sansoni si dedica in prevalenza alla grafica e alla scenografia: tra il 1953 e il 1957 collabora con lo Studio Debbia di Milano come disegnatrice pubblicitaria; negli anni Sessanta lavora come illustratrice e grafica per riviste e quotidiani, tra cui “Vogue Italia & Novità”, “Domenica del Corriere – Settimanale del Corriere della sera”. Dal 1963 cura una rubrica di moda per “Trentagiorni. Notiziario per i dipendenti del Gruppo Edison”. Nel 1964 realizza con Lorenza Stucchi il libro Giochiamo alla cucina (Editoriale Milanese); nel 1972 nascerà la collana Giochiamo a… edita dalla Fratelli Fabbri, con una nuova edizione del libro del 1964. Tra il 1963 e il 1965 collabora, con testi e disegni, alla rubrica La signora in casa della rivista trimestrale “Colloqui”. Nel 1964 suoi disegni compaiono a più riprese su “Corriere d’informazione”, testata per la quale tra il 1967 e il 1968 cura la rubrica Tempo libero per i bambini. Per lo stesso giornale nel 1967 disegna le illustrazioni dedicate alla Mostra del cinema di Venezia, realizzando, tra l’altro, disegni dedicati alla Cinese di Godard e a Bella di giorno di Buñuel. Sue illustrazioni e articoli compaiono anche su “Abitare” (maggio 1965), “Noi genitori” (luglio 1968). Dal 1970 al 1973 collabora alle rubriche RAI Il gioco delle cose e Gira e gioca, realizzando sceneggiature, oggetti di scena, disegni, bozzetti e costumi.
4 Lydia Sansoni e Magda Simola, La prima è stata Lilith. La lotta delle donne nel mito e nella storia, Edizioni Ottaviano, Milano 1976.
5 Le copertine escono, rispettivamente, nell’aprile e nel dicembre del 1975.
6 La cooperativa è composta da Antonella Barina, Lydia Sansoni, Alessia Fani, Fernanda Core, Cecilia Capuana, Alessandra Nencioni, Mariella Pisano, Margherita Vajente, Maristella Borotto, Giuliana Maldini, Cristina Catena, Patrizia Zerbi, Cinzia Ghigliano.
7 Femminismo in cornice, in “Corriere d’Informazione”, 15 aprile 1975.
8 Su questo aspetto si v. Eleonora Pischedda, La donna ideale. Senofonte e l’educazione delle giovani spose, in I quaderni del ramo d’oro on-line, n. 11 (2019), pp. 83-101.
9 Dacia Maraini, Introduzione alla mostra Lydia Sansoni, Il Gabbiano, La Spezia, dal 20 maggio 1978 (pieghevole), s.n.p.
10 La firma di Giosetta Fioroni compare tra quelle presenti nell’album della mostra personale alla Librellula di Bologna, conservato nell’archivio personale di Sansoni.


Fonti, risorse bibliografiche, siti su Lydia Sansoni

Raffaella Perna, Lydia Sansoni e la «farsa dei ruoli sessuali», testo per la mostra L’oggetto femminista-l’arte di Lydia Sansoni negli anni Settanta, Roma, Casa internazionale delle donne, 2022




Voce pubblicata nel: 2024

Ultimo aggiornamento: 2024