[…]

così grande il tuo sogno, Anima, in questa

solitudine mia palpiti, e celi

tanta di tedi vani ombra funesta

[…]

(L’offerta, vv 7- 9)

Poche pennellate per un ritratto. Il ritratto di un’anima, di una donna, di una poeta, la cui breve esistenza è stata segnata da una ricerca di senso al proprio vivere e da un ineludibile ardore artistico.

Luisa Giaconi.

Un’autrice purtroppo a lungo dimenticata, comparsa qua e là in sporadiche antologie, tra queste, in: E. Levi, Dai nostri poeti viventi (1896, 1903) G. Viazzi, Poeti simbolisti e liberty in Italia (1971), Dal simbolismo al deco: antologia poetica cronologicamente disposta (1981); S. Raffo, Donna, mistero senza fine bello: la poesia femminile d’occidente dalla Grecia classica alle soglie del XIX secolo, (1994).

Si deve all’attenzione di Maria Luisa Spaziani il merito di averne maggiormente riconosciuto il valore nel suo Donne in poesia (Marsilio, 1992), introducendo il nome di Luisa Giaconi tra le sue interviste immaginarie, accanto a molte poete del panorama mondiale a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento (Dickinson, Achmatova, Cvetaeva, Lasker-Schüler, Bachmann) e alle italiane Amalia Guglielminetti, Ada Negri, Vittoria Aganoor Pompilij, Antonia Pozzi.

Chi fu e che fece, in mezzo alle altre, questa creatura così alta?

(G.S. Gargano, epilogo a Tebaide)

Di lei, oltre al ritratto dipinto dall’amica Romea Ravazzi, non molte sono le notizie pervenute, in parte grazie al rinvenimento di un epistolario e in parte alla sua raccolta Tebaide, pubblicata postuma, da cui si può desumere l’immagine di una figura delicata, fors’anche timida e schiva, amante del silenzio e della solitudine; un animo dedito alla riflessione e al vagheggiamento, con una spiccata vocazione poetica. Un’esistenza sommessa e riservata, la sua, fuori dai clamori e dalla mondanità.

[…]

Ma veniva essa da un mondo ignoto, un mondo lontano,

sola, come mai fu solo chi andò fra i sogni errabondo

[…]

(L’immagine, vv 13-14)

Nasce a Firenze, il 18 giugno 1870 in una famiglia di nobili origini.

Con la sorella Alba e la madre Emma Guarducci, si sposta in varie città italiane per seguire i trasferimenti del padre, Carlo, insegnante di matematica. Dopo la morte di questi, torna a Firenze, dove si diploma alla Regia Accademia di Belle Arti, che le permetterà di avvicinarsi ai grandi capolavori di artisti del passato e di vivere dignitosamente svolgendo l’attività di copista di dipinti presso musei e gallerie d’arte.

Una sensibilità artistica che, pertanto, esplicita sia nella pittura che nella poesia.

È un’attenta lettrice, in particolar modo dei classici, Dante, Petrarca, Foscolo, dei filosofi Emerson e Schopenhauer. Non meno, fra i suoi interessi, c’è l’ascolto della musica, di Beethoven e Chopin.

Per quanto difficile per una donna di quell’epoca, partecipa alla vita culturale della Firenze di fine ‘800. Contesto che le permette di stringere amicizia con alcuni intellettuali, tra cui Angiolo Orvieto (fondatore della rivista Marzocco) e col poeta Enrico Nencioni, suo vicino di casa, nel quartiere di Santo Spirito, grazie al quale intensifica lo studio della lingua e della letteratura inglese.

Del carteggio di circa 200 lettere, ritrovato, assieme ad alcuni inediti, dalla studiosa Manuela Brotto, in un archivio privato, otto lettere sono indirizzate a Giuseppe Saverio Gargano, critico e collaboratore del «Marzocco»; missive riconducibili ai mesi di agosto e settembre del 1899, durante una vacanza, in una località montana, non ben precisata, di nome Badia, con l’amica Romea.

Il carteggio testimonia la breve relazione avuta col Gargano, lui ha 40 anni, lei 29 anni, terminata alla fine del 1899, quando, con l’acuirsi dei suoi problemi di salute, Luisa è costretta a una vita ritirata, in cui però, sebbene lontana dalla cerchia letteraria fiorentina, continua a comporre ancora liriche di intensa bellezza.

Rivolgendosi a Giuseppe Saverio con l’affettuoso vezzeggiativo Cherilo (alludendo forse al poeta tragico della antica Grecia Cherilo di Samo, VI-V sec. a.C.), ella manifesta un impeto sincero, appassionato e sensuale:

… penso a come sono stata avvinta a te, al tuo petto all’anima tua, e a come le mie labbra hanno aspirata dalle tue labbra l’essenza della vita, la vera, la pura, la buona essenza. (lettera I)

… fra pochi giorni tu mi stringerai a te e tu vorrai ancora bere la dolcezza profonda dei nostri baci, senza ombre senza timori. (lettera V)

variando nei toni a tratti scherzosi:

non fumare troppo, ricordati che avevi deciso di smettere, ti permetto di fare della ginnastica, anche acquista forze per sostenere la mia pinguedine! (lettera III)

a tratti malinconici:

Non ti affliggere per la tristezza che qualche volta mi prende; è l’ombra dell’amare. (lettera III)

come quando, ad esempio, esprime la delusione, il rammarico per le poche missive che lui le invia:

Nemmeno stasera tu mi hai scritto, ciò mi ha reso un po’ triste, ma spero domani mattina. (lettera I)

… faccio delle piccole passeggiate nel bosco, e vado alla posta sempre alla sera, qualche volta anche la mattina, ma ahimè spesso me ne ritorno delusa; ma di questo bisogna incolpare la mia avidità di notizie. (lettera II)

Dalle parole affiora una donna capace di un amore spontaneo e di grande dedizione:

… io metterò tutta la mia vita nelle tue mani. (lettera IV)

Cherilo è la tua gioia, è la tua pace che io voglio, ed io non esiterei a sacrificarti la mia parte di felicità, purché tu non dovessi piangere mai. (lettera III)

 E se c’è una nube nel mio cielo d’amore è il tuo sconforto; perché io ti vorrei felice come nessuno uomo al mondo; e vorrei che a me fosse data la grazia suprema di sollevarti in alto, nella gioia ultima. (lettera V)

ma al tempo stesso calata praticamente nella vita di ogni giorno; una donna dalla personalità vivace, riflessiva, lontana dalle mode e dalle convenzioni sociali, animata da ideali e passioni nonché da incertezze e preoccupazioni, consapevole del male che sta consumando lentamente il suo corpo.

La mia anima vede con la più grande lucidità questo suo corpo lottare contro una corrente più forte di lui, e, cosa strana, mi pare anche che questo corpo non sia mio, ma un altro che io contemplo nelle sue sofferenze, e che io abbia in me tutte le forze della giovinezza e della salute.

(G.S. Gargano, prefazione a Tebaide 1912)

 Questa l’immagine di Luisa Giaconi che le sue lettere ci restituiscono.

Luisa Giaconi cercò ella stessa l’oscurità e il silenzio. Con l’istinto che rivelava nello stesso tempo l’elevazione del suo spirito e la più squisita delicatezza femminile, le parve cosa piccola ed inutile cercare i mezzi coi quali ordinariamente si giunge a salire qualche gradino di quella pubblica tribuna intorno alla quale s’agita sempre ondeggiante la folla senza nome”.

(G.S. Gargano, epilogo a Tebaide)

Nel silenzio e nella solitudine sono scandite le sue giornate.

Silenzio e solitudine ricercati dunque per meglio abbandonarsi alla contemplazione, alle sue rêveries:

Errai nei campi del Sogno

in una bianca, divina

luce d’aurora. Oh visioni

di verde mari lontani!

Oh visioni di stelle

Sovra il pallore dei cieli!

Errai per dolci sentieri;

discesi a le valli profonde.

[…]

Io sola, mite e serena

In quei silenzi d’aurora

Scesi alle valli profonde

Ed ai mari de l’infinito

(Nei muti campi del sogno vv 1- 8, vv 21-24)

per rispondere alle urgenze della sua anima, per sciogliere i nodi del cuore, per catturarne le vibrazioni, dando loro forma ed essenza, mediante il ricorso alla scrittura poetica.

[…]

Vano rifugio che rimane aperto

ai vènti; canto di richiusa vena;

nido non fatto, che lasciam deserto,

prima del giorno, e ove posammo a pena.

(Il rifugio vv 63 – 66)

Le sue composizioni appaiono in varie riviste, come in «L’idea liberale», «Cordelia» e, soprattutto, in «Marzocco», ma mai in una silloge, se non con la pubblicazione postuma di Tebaide. Poesie, con la casa editrice Zanichelli, nel 1909.

Già qualche mese prima della morte, confidando nell’attenzione di qualche editore, l’autrice cura, fin nei più minimi dettagli, l’eventuale stampa di una sua opera, pianificando con precisione la struttura e la successione delle 18 liriche selezionate dalla sua produzione, come anche la scelta del titolo: Tebaide, appunto. Titolo di significativa evocazione, che rimanda, non a caso, alla nota esperienza di romitaggio, di quiete, d’ascesi e preghiera dei primi anacoreti nella desertica regione dell’antico Egitto.

Poeta del silenzio è definita da Angiolo Orvieto.

Tebaide, quindi, è il riflesso della sua intima ansia per una pace silenziosa, per una solitudine da vivere nella quotidianità e nella creazione poetica. Tebaide come rifugio, come soglia verso una terra agognata, silenziosa terra, oasi immensa, silente, lontana, tempio supremo, alta la provvida liberatrice. Questi gli attributi, gli appellativi espressi nella poesia d’apertura, che riporta lo stesso titolo della raccolta, facendone quasi una personale attestazione poetica.

L’edizione si apre con la dedica:

“ad Anna Montagnon /dolce anima sorella/ L. G.”

Tebaide è un originale florilegio, che racchiude una realizzazione lirica tra le più singolari e moderne nel panorama delle composizioni femminili a cavallo tra Ottocento e Novecento. Ricca di suggestioni, presenta tracce di ispirazione simbolista, del Romanticismo inglese e dei Preraffaelliti. Non mancano tuttavia riprese riconducibili al Decadentismo, a D'Annunzio e, soprattutto, al Pascoli, dei Poemi Conviviali e dei Canti di Castelvecchio, (i sistri d’argento della poesia Il vento; nido non fatto, che lasciam deserto/prima del giorno della poesia Il rifugio; cuore di un cipresso, in La casa sul monte) con un’impronta tutta peculiarmente sua.

Riecheggiano anche versi da Leopardi e da Petrarca (l’ora muta in cui tu lento cammini/ lungo le solitudini pensose/de’ sogni, in L’ora divina).

Il suo poetare evidenzia una ricerca metrica, stilistica e linguistica accurata e suggestiva, tesa alla perfezione, che non manca tra l’altro di una meticolosa esplorazione di carattere esistenziale e filosofico.

Tutta la sua poesia (ancora si può dire ignota) è un continuo anelito a quelle altezze e a quelle profondità, uno sforzo sempre più vittorioso di costringere la parola ad esprimerle, di trovare nelle ondeggianti e grandiose melopee dell’Infinito la linea melodica che ne riveli la musica anche nelle anime meno attente.”

(Angiolo Orvieto, in Gargano, Epilogo)

È un verseggiare fine, arioso, aggraziato da sonorità armoniche, a volte elegiaco e visionario a volte inquieto e drammatico, che, assecondando gli stati d’animo e la sensibilità di uno spirito femminile, ne segue il ritmo, ora cadenzato ora ansante.

Eretta Ella nel lampo del sol morente, cantava

un antico e lento poema suo; fremeva di ritmi

profondi il silenzio de’ lauri solenne come eco;

cantavano i cieli con echi vasti di luce d’oro.

[…]

Diceva Ella il poema suo vasto ed antico dinanzi

a un’ara invisibile; e faci magiche eran le vite

arboree accese ne l’ora fiammea, ed incenso

la errante pei cieli odorosa anima dei fiori.

(Armonia vv1-4; vv 9-12)

La Giaconi alle tonalità accese, chiassose del giorno, crude e assolate dei mezzogiorni, predilige nelle sue strofe le atmosfere crepuscolari, velate, serotine e principalmente notturne, che inducono all’intimismo, sintonici col suo sentire, col suo io interiore, aderente alle corde della sua anima, pensosa e sognatrice.

E a notte, nel silenzio di Dio, a fiore dell'ombra,

come il riflesso d'una stella sul mare infinito,

vedevi una tua luce, un tuo fioco astro romito

l'Anima, che mai non s'adombra,

vedevi che splendeva sola nel tuo gran deserto,

che sola t'accendea la vita oltre i suoi confini,

che ti scaldava sola i germi del cuore divini,

come in un solco grande aperto.

(L'ultima pagina, vv 37-44)

Un modulare semantico che riflette dunque uno scavo profondo, tutto introspettivo e meditativo.

Ma altri nuclei ispiratori, altri temi nodali ritroviamo nelle sue liriche, come il senso del mistero e dell’imponderabile che circonda la vita tutta:

[…]

il giorno, ch’è fra due notti,

come la vita nel nulla,

che nel mistero ci culla;

un sogno anch’esso e non più.

(L’alba vv 17- 20)

il sogno, il suo fascino e il suo disincanto:

[…]

Li autunni non furon che eterne primavere velate

di pianto; e la vita fu sogno e l’amore fu sogno,

e parvero sogni le luci delli astri, e la dolcezza

dei fiori, ed il tempo, e la morte. Poi che noi siamo sogni.

(Tebaide, (vv 21-24)

Come non ricordare qui le parole di Prospero nella I scena del IV atto de La tempesta di Shakespeare “Noi siamo della materia di cui son fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno”; il dualismo tra l’oggetto onirico e la realtà, l’illusione di entrambi, poiché tutto è sogno, e, con un esplicito richiamo al Qōhelet e ai Canti di Leopardi, tutto è sconfinata vanità che illude;

l’amore nella sua accezione di desiderio vitale ed erotico, di sentimento sovente doloroso, ma anche nella sua valenza cosmica e spirituale:

[…]

Oh averti con me nella notte che accieca, che avvolge,

cercare con li occhi il mistero delli occhi, cercare

coi labbri il mistero dei labbri, essere una fremente

dolcezza che silenziosamente imperi su l’ombra…

Sentire nei sogni supremi la grazia che ebbero

all’aurora; sentire ancora nei baci supremi

un pianto di gioie più grandi de la vita… colmare

noi come un infinito ritmo la notte, la morte.

(Voto, vv 9-16)

l’inquietudine, la morte, come soglia verso un mondo altro, superno, l’anelito verso l’infinito:

[…]

meta dolce, meta ultima che s’ama

raggiunger quando l’anima ha bisogno

non della terra – or nulla vi brama

più – ma d’un eco per il suo gran sogno:

l’Infinito

(Il rifugio vv 29 – 33)

e infine la Natura, contemplata e percepita non nella sua oggettività quanto piuttosto nella sua dimensione segreta, arcana, orfica:

[…]

E avea per tempio, nelle solitarie

notti, la valle misteriosa e il tacito monte,

tempio che s’allungava immenso fino all’orizzonte

sotto le stelle millenarie

[…]

La terra palpitava chiusa nel suo gran mistero

[…]

(Le due preghiere vv 31- 34; v 51)

una natura delicatamente permeata da lucori e ombre, oppure attraversata da forze e impeti incoercibili, di fronte ai quali c’è la resa, l’inermità, come nella bellissima poesia Il vento con cui si chiude la raccolta:

Qualcuno spinge la mia porta, l’agita violento;

qualcuno piange con dei lunghi gemiti stasera,

uno che corse sibilando per la notte nera…

È il vento che si leva, è il vento

(Il vento vv 1-4)

che prosegue nel ritornello delle successive strofe con un climax in crescendo di vorticosa intensità: il vento che si leva… si lagna… riposa… cammina… che mi cerca… che c’incalza.

Ed è qui, nel 19° verso, che si scorge il tragico accenno premonitore della sua vita, un soffio sveglia la mia lunga tosse funesta: la morte di Luisa a soli 38 anni, avvenuta a Fiesole il 18 luglio 1908, a causa della tubercolosi contratta da ragazza.

La raccolta ha in chiusura l’epilogo di G. S. Gargàno, in cui egli esprime non solo il rimpianto per la sua precoce morte ma anche, con accenti un po’ edulcoranti e agiografici, la nobiltà e l’armonia della sua persona che “diffondeva intorno a sé quasi una malinconica grazia, pari all’aroma dell’ambrosia che lasciavano al loro passare, le antiche dee. E quel segno era indimenticabile.”

Tebaide ha un buon successo di pubblico e di critica. Il poeta crepuscolare Guido Gozzano, così affine al sentire Giaconiano, in una lettera inviata al Gargano, afferma la sua stima per la persona e per la poeta: “Luisa Giaconi! Ecco il modello che ogni artista onesto dovrebbe proporsi nella vita letteraria o non. Invece!

Nel 1912 Gargano, addolorato dal lutto della morte della sua amata, si adopera per una seconda edizione di Tebaide, sempre con l’editore Zanichelli, con l’aggiunta di 26 inediti, portando così a 44 composizioni in tutto, divise in 4 parti, precedute da una sua prefazione.

Il critico tuttavia stravolge, molto arbitrariamente, l’ossatura compositiva della prima edizione, non solo con l’inserimento delle nuove liriche, ma ponendo come incipit della raccolta la poesia intitolata a Cherilo, quasi a far intendere che l’intera silloge sia a lui dedicata, palesando in tal modo il legame amoroso che li univa ma anche un, non proprio taciuto, senso di vanità e autoreferenzialità.

In alcuni testi si nota inoltre l’intrusione della sua mano, quando qua e là ne manipola gli aspetti stilistici e formali, con indubbie difformità rispetto agli originali.

Qui compare il ritratto di Luisa, realizzato dalla Ravazzi il cui nome, probabilmente per un refuso, risulta scritto Romeo, anziché Romea.

Indossa un abito chiaro, estivo; è seduta con le mani aperte, abbandonate sul grembo; i capelli scuri le incorniciano il volto delicato, bambino, lo sguardo un po’ malinconico, assorto a fissare qualcuno da cui sembra attendere un’attenzione, una qualche parola. Nell’insieme una fisionomia esile, gentile.

All’amica è dedicata il Tempio.

Questa seconda Tebaide si conclude con la poesia Dianora, altrettanto splendida, altrettanto struggente quanto Il vento.

In merito al suddetto componimento c’è una vicenda editoriale che avvicina la Giaconi al poeta Dino Campana. Questi infatti, avendo letto i suoi testi, nella Tebaide dell’edizione 1912, rimane particolarmente colpito da Dianora tanto da segnalarla, come “memorabile” per la “sensibilità neo-greca che è quella della vera poesia italiana moderna”, a Mario Novaro, suo editore. Nel biglietto accluso scrive “una donna di Firenze morta”, senza tuttavia - chissà se consapevolmente o inconsapevolmente - nominarla.  Da ciò scaturisce una bizzarra e ambigua situazione, perché la poesia pubblicata col titolo La tua giornata d’amore, il 1/5/1916 ne La Riviera Ligure, di cui Novaro è direttore, porta la firma di “inediti di D.C.”. Solo nel 1941 sulla rivista «Documento» si spiegherà finalmente l’equivoco, col riconoscimento del nome di Luisa Giaconi, quale effettiva autrice di Dianora.

La lirica è definita da Brotto: “un canto universale di vita e di morte, di arte e d’amore”. Nella figura e nella storia di Dianora - nome di fanciulla presente in alcune leggende, non raro in quegli anni a Firenze - si può intravedere la delicata e sensibile personalità di Luisa, la sua esistenza tessuta tra sogni e disillusioni, segnata dalla ricerca di un amore sincero, da un destino d’infelicità e di morte.

Un filo di seta iridescente pare unire silenziosamente la vita e la persona di Luisa a due grandi poete, quasi sue contemporanee: Alfonsina Storni e Antonia Pozzi.

Ritorna lontano. La tua giornata d’amore

passò, la tua ora di sole si spense, Dianora;

[…]

Chi mai in silenzio ora

accende la lampada ai vespri muti del Poeta,

sorride alle sue notti bianche,

bacia le sue palpebre stanche,

chi mai, Dianora?

[…]

Avviati per qualche deserto sentiero che ignori,

per la landa tacita e brulla

dove l’ultima pace culla

chi pianse ed amò, Dianora.

Riposati a qualche cipresso, attendivi l’ora

che tutto ti sembri un immenso e inutile nulla,

o Dianora.

(Dianora, vv 1-2, vv 6- 10, vv 33-39)

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Luisa Giaconi

L. Giaconi, Tebaide. Poesie, Zanichelli, Bologna 1908

L. Giaconi, A fiore dell’ombra. Le poesie, le lettere, gli inediti. Saggio di M. Brotto Luisa Giaconi: la donna fiore, Ed. Petite Plaisance, Pistoia 2008

L. Giaconi, Dalla mia notte lontana, a cura di I. Rabatti, ed. C.R.T., Pistoia 2001

L. Spaziani, Donne in poesia: interviste immaginarie, Marsilio, Venezia 1992

B. Frabotta, Il simbolismo nel mondo simbolico femminile tra due secoli, in Les femmes écrivains en Italie (1870-1920): ordres et libertés. Chroniques italiennes nn. 39,40, 1994, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle

Voce pubblicata nel: 2022

Ultimo aggiornamento: 2022