Abbiamo avuto poeti di altissimo livello che non fanno parte dei programmi scolastici, e questo delle poetesse è un altro vuoto nel vuoto. (Pierina Cilla, in arte Pedra Tzilla)
Livia Cucca è stata una poeta improvvisatrice. In Sardegna la poesia estemporanea è ancora attualissima e si esprime rigorosamente in lingua sarda (limba), durante feste e gare di piazza; sempre connessa con la musica, questa poesia ha lunga tradizione soprattutto popolare: la memoria prodigiosa di alcuni cultori – e cultrici, come vedremo - è stata il solo mezzo con cui le comunità si sono tramandate intere cantate, giunte in alcuni casi sino a noi.
La vocazione di Livia si nutre in famiglia: il padre è l’improvvisatore gairese Antonio Cucca e sua madre Giuseppina Meloni, originaria di Seui, è una grande appassionata di poesia, nonché capace improvvisatrice del canto funebre.
Nonostante la grande considerazione nella quale i sardi hanno sempre tenuto la poesia, conservando accurata memoria dei nomi di numerosi ‘cantadores’ e perfino intere composizioni, fino all’inizio di questo secolo quasi nessuno ricordava la presenza di donne in questa schiera. Nelle pubblicazioni dei maggiori studiosi della cultura sarda comparivano giusto alcune poetesse istruite e di famiglie in vista, mentre parevano inesistenti le improvvisatrici e le poete di ceto popolare. È merito soprattutto di una studiosa di Benetutti, Pierina Cilla - anche lei poetessa -, se attualmente abbiamo una piccola raccolta di testi e di nomi di autrici. Trattandosi per lo più di tradizione orale, questa ricercatrice non ha potuto contare su una bibliografia se non per riferimenti incidentali (cronache di viaggio, lettere, qualche articolo di vecchie riviste). Piera Cilla (nome in sardo Pedra Tzilla) ha soprattutto indagato sul campo, intervistando testimoni di un passato lontano: persone istruite (spesso parroci) che avevano trascritto poesie udite dalle compaesane, oppure discendenti di alcune poetesse di cui inizialmente era stato possibile reperire giusto i nomi. La studiosa è partita da due ‘cantadoras’ di cui si trovano alcuni ritratti fotografici, Maria Farina e Chiarina Porcheddu, per scoprire che ne sono esistite anche altre e che molte persone custodiscono ancora vecchie trascrizioni, a volte rimaste senza nome. Cilla ha pubblicato la sua ricerca nel 2016 e purtroppo è mancata nel 2021, lasciando però un vero tesoro dietro di sé.
Da questi studi emergono non solo quei campi poetici di appannaggio completamente femminile come le Ninnenanne e i Canti Funebri: le donne verseggiano sull'amore, parlano dei crucci della vita e del lavoro, degli eventi del loro territorio, di cambiamento sociale e di impegno politico, di malattia, di emigrazione, del rapporto fra i sessi e di quello con la natura; alcune hanno anche partecipato alle sfide sul palco, sorprendendo il pubblico per le risposte pungenti date agli avversari e per la ricchezza di argomentazione.
Negli anni ’80 Lina Aresu, studiosa della cultura orale, definì Livia Cucca storiargia e ne fece una informatrice privilegiata a partire dal suo libro “Su moru in crobetura” (Il moro sul tetto), Stampa Alternativa, Roma 1993. Questo affettuoso interesse evidenziò soprattutto un aspetto secondario della personalità di Livia, che possedeva sicuramente il carattere e la memoria prodigiosa della storiargia, cioè di colei che anche con il canto conserva e trasmette la memoria di una comunità.
Rispetto ai cantastorie dell'Italia meridionale, la storiargia si esibisce essenzialmente in situazioni più intime e familiari o amicali, nel corso delle quali ricostruisce le vicende parentali ma anche quelle del vicinato e del paese intero, punteggiandole di particolari, di riferimenti cronologici e perfino di spunti leggendari; funziona come anello di congiungimento tra le vecchie e le nuove generazioni, contribuendo alla trasmissione del sistema di valori condiviso dal gruppo; se di fama, la storiargia viene consultata anche da membri di altri gruppi, come fonte di norme e informazioni sicure.
Nel tempo la società tradizionale sarda si è profondamente trasformata, e indebolita nelle sue consuetudini, compresa la presenza della storiargia. Ma la storia del paese di Gairo ha determinato una funzione importante e speciale dell’arte di Livia Cucca. Negli anni ’50 il paese fu travolto da un’alluvione, che costrinse la comunità ad abbandonare le proprie case per ricostruirle in zone diverse e distanti. Livia Cucca, come tutti i suoi compaesani di allora, si ambientò nella nuova località e strinse nuove relazioni, senza tuttavia recidere mai il filo che la legava al vecchio paese, i cui resti sono ancora oggi in parte visitabili lungo i costoni franosi del Rio Pardu. Nei racconti dei suoi abitanti il villaggio è vivissimo, anche se avvolto in una patina di leggenda riguardo alle virtù e alle consuetudini della popolazione di allora. In questa luce si comprende come alla storiargia spettasse custodire la rete dei racconti che teneva insieme quella comunità.
Livia Cucca teneva a mente molte composizioni poetiche sentite anche una sola volta, tanto che era in grado di ripetere l’intero testo in versi di una rappresentazione teatrale a cui aveva assistito da ragazzina; eppure la sua vicenda, come ella stessa sottolineava con determinazione, non si esauriva con la funzione di depositaria di storie e versi altrui. Nella sua esperienza, sin da bambina, il ruolo di custode della memoria e quello di poeta si intrecciavano.
La fase dell'apprendistato dovette molto alla figura paterna, che forniva a Livia le nozioni essenziali quasi in forma di gioco, svolto insieme ai lavori di casa e di campagna: la bambina si esercitava nella ripetizione paziente di strofe, riceveva la segnalazione attenta di questioni metriche, veniva educata al senso musicale e all’uso della voce, veniva in contatto con un repertorio catalogato secondo la tipologia dei diversi canti, affrontava sfide in rima.
Già da piccola Livia ricevette buona accoglienza presso i compaesani, che la invitavano a cantare in cambio di un dolce. Con suo grandissimo cruccio, non poté studiare oltre la quinta elementare, frequentata comunque irregolarmente a causa del gravoso impegno familiare: aveva da badare al gran numero di fratelli e sorelle (diciassette nati) e si occupava, fin da bambina, di fare il pane; confezionava inoltre formaggi e insaccati per tutto l'anno, mentre i genitori erano in campagna. Livia ricordava sempre quanto la sorpresa del suo maestro elementare per il buon ritmo e le rime delle sue poesie, costruite anche in italiano con una naturalezza e una arguzia insolite per una bambina di età scolare.
Oltre agli esempi diretti, Livia Cucca raccontava di aver seguito anche altri modelli indiretti, soprattutto Maria Farina di Osilo (1887 – 1958), che la colpiva certo per essersi cimentata come gli uomini nelle gare poetiche sul palco; ma per prima cosa Livia apprezzava quanto questa fosse stata padrona dell’arte dell'improvvisazione e quanto fosse stata consapevole del proprio valore. Per questo la poetessa gairese non solo conosceva a memoria parecchi versi di Maria Farina, ma ne compose in suo onore:
Issa fit singolare che sa luna,
ma poetessas bi ‘nd’at cantu istellas,
ant sa formula ‘e narre cosas bellas.
Deo puru m’agato in custa duna.
Cantant in poesia sas novellas
Ma non b’est gara chi nos si radunat,
e incurantes de sa carriera
i tramontant senza faghe spera.
( Ella fu singolare come la luna, / ma poetesse ce ne sono quante sono le stelle, / conoscono la formula per dire il bello delle cose. / Anche io mi trovo in questi territori. / Tutte cantano in poesia le storie / ma non c’è gara che ci riunisca, / e incuranti di una carriera / esse tramontano senza lasciare traccia ).
La prima “investitura” poetica venne dal padre, in occasione di un raduno nella cantina di famiglia; egli era solito invitare i migliori cantori del circondario e mettere a disposizione cibo e bevande. Mentre gli estimatori affluivano, fu appunto il padre di Livia a spingerla, ventenne, alla tenzone. Il pretesto consisteva nel rispondere per le rime (in tutti i sensi) ai versi di uno dei cantadores, che riteneva di meritare libagioni ancora più abbondanti; la risposta ironica giunse prontamente in forma di mutetu, nel quale Livia ricordava all’improvvisatore che si sarebbe anche potuto fare a meno di lui, dato che la famiglia Cucca esprimeva già validi poeti. Il contrasto arguto provocò ammirati consensi e ulteriori scambi poetici in sfida. La voce ben esercitata e l'efficacia dei versi piacquero e fecero sì che altri di questi incontri si verificassero.
La seconda occasione poetica venne dalla madre, in occasione di una veglia funebre a Gairo.
Presso la famiglia di un defunto veniva ritenuto grande onore ricevere la visita e la dedica di un canto (atitu) da parte di persone in grado di poetare. S’atitu assolve alla funzione catartica di favorire l'esternazione del dolore, raccoglie una memoria delle doti del defunto, riferimenti ai presenti ma anche ad altri cari scomparsi. La madre di Livia era apprezzata in questo genere poetico anche perché, essendo originaria di Seui, proponeva uno stile un po' diverso, ritenuto più musicale rispetto a quello di Gairo. In tale frangente la madre istruì la giovane Livia soprattutto sui tempi di entrata e sulle pause del canto, avvertendola del momento più delicato: quello che conclude s'atitu, e raccoglie il culmine della commozione; esso deve giungere prima dell'esaurirsi del coinvolgimento poetico collettivo e deve coordinare, con una risoluzione ispirata ma precisa, le diverse trame concettuali e metriche.
La lingua adoperata da Livia, a cui il padre aveva sempre raccomandato l'uso della versione logudorese soprattutto per alcune forme metriche, in realtà è un incontro della parlata gairese con espressioni logudoresi. Il contenuto è la parte più interessante, perché comprende inni religiosi e civili, liriche bucoliche, narrazioni storiche o fantastiche, spaziando dal tono riflessivo e filosofico a quello encomiastico al piglio ironico e giocoso, con frequenti descrizioni di paesaggi e strumenti di lavoro; oggi restano della poetessa diverse trascrizioni che comprendono una narrazione in versi della sua vita, alcuni dialoghi meditativi e un nutrito gruppo di poesie dedicate alle persone della sua cerchia e ai luoghi più amati. Sembra perduta, invece, una sintesi in sardo dell’Odissea, a cui la rimatrice aveva lavorato per qualche tempo.
Le esibizioni pubbliche non durarono a lungo per diversi motivi. Con il tempo Livia, desiderando di fuggire dalla propria dura vita di contadina e massaia, meditava la scelta del convento e divenne più riservata. Inoltre il pericolo di crolli dopo l’alluvione indusse i gairesi a trasferirsi in altri centri abitati, interrompendo la consuetudine di ritrovarsi per improvvisare poesia. Il padre di Livia, avanzando in età, si rammaricò spesso di aver perso le energie e la voce necessarie a introdurla nel circuito dei poeti da palco.
Superati i trent’anni Livia abbandonò l’idea del convento e si sposò, trasferendosi con il marito Antonio a Lanusei dove ebbe due figli. Nel nuovo ambiente, tuttavia, mantenne segrete le proprie inclinazioni poetiche per timore di essere derisa e calunniata, come era capitato ad altre poetesse che usavano il sardo, lingua già sottoposta ad una campagna di svalutazione soprattutto nel periodo fascista.
Tuttavia Livia non smise mai di verseggiare e prese l’abitudine di scrivere le rime su qualunque pezzo di carta le capitasse a tiro; negli ultimi decenni di vita la poetessa raccolse nuovamente consensi anche da parte di letterati locali, perciò iniziò a ricopiare la propria produzione pur provando quasi pudore a scrivere per la disabitudine a questo mezzo. Infatti la grafia è incerta e tremolante, presenta blocchi indistinti di alcuni morfemi e incongruenze ortografiche; a volte risulta difficile da decifrare eppure possiede bellezza ed eleganza. Inoltre non mancano nell'eloquio, in sardo o in italiano, parole nuove e dal significato anche complesso: segno della vivissima curiosità nei confronti della parola come specchio delle infinite sfumature del pensare e del sentire, ma anche del mai spento desiderio di apprendere e migliorare.
Nella sua autobiografia in versi, intitolata “Sa vida de minori”, la poetessa ci ha lasciato una vivace rappresentazione della famiglia contadina durante la prima metà del Novecento:
Su sagrestanu cun s’Avemaria \ is paesanus tottu ndi scidàda;
sa persone essi manna o essi pittia \ deppit iniziai sa giornada.
O in su mestieri o in campagna, \ de pippiu sa vida si guadagnat.
In dommu deu soi sa maggiori e mama,\ ‘e mei, tenìat bisongiu.
A dd’aggiudai ch’e manna mi pongiu, \onnia dì diventu migliori.
Ma babbu si cumandat cun amori, \a babbu dispraggeri no ndi ‘ongiu.
Ddu biu malaticciu e anzianu, \ entusiasta ddis dongiu una manu.
Unu possessu teneus lontanu, \ est in su situ llamau Sessei:
Quattru oras de camminu a pei, \a cantu s’ammalàdiat su sanu.
A cumenzari de su bonu mangianu \ ddu est de fai po tui e po mei.
Cando su ordini mama no si ‘onat \ non ci tenit Assisa chi perdònat.
In su possessu una ‘ommu ddu e’i, \ chi ‘ommu fudi, però non fu manna.
Portàda unu tabiccu fattu ‘n canna: \ ch’e una reggia fu bella po mei.
Una silimba fiat po capanna \ e babbu Cucca pariat su rei;
‘onàda is ordinis po sa cosa ‘e fai, \ nemos si podiat ribellai.
(Il sacrestano con l’Avemaria \tutti i paesani svegliava; \ la persona che fosse grande o piccola \ deve iniziare la giornata. \ O nel mestiere o in campagna, \ da piccolo la vita si guadagna. \ In casa io sono la maggiore e mamma, \ di me, aveva bisogno. \ Ad aiutarla come una grande mi metto, \ ogni giorno divento migliore. \ Ma babbo ci comanda con amore, \ a babbo dispiaceri non ne dò. \ Lo vedo malaticcio e anziano, \ entusiasta dò loro una mano. \ Un podere abbiamo lontano, \ è nel sito chiamato Sessei: \ quattro ore di cammino a piedi, \ dove si ammala il sano [per la malaria]. \ A cominciare dal mattino presto \ c’è da fare per te e per me. \ Quando mamma ci dà un ordine \ non c’è Assise che perdona. \ Nel podere c’è una casa, \ che era casa però non era grande. \ Aveva una copertura fatta in canna: \ come una reggia era bella per me. \ Un carrubo faceva da capanna \ e babbo Cucca pareva il re, \ dava gli ordini per le cose da fare, \ nessuno si poteva ribellare.)
Altri passaggi descrivono la vita durante la guerra, sia nella quotidianità che in occasione delle grandi feste, riportando in rima anche ricette della tradizione:
In dommu fu sa mesa preparada: \ pess’a orrostu e succiu de binaccia,
e a porceddu mortu appu agattau.\ Aggiudu a mama a fae su ‘ortau.
Su ‘ortau est sambini’e suinu: \ pani a dadinus finzas a tostai,
pibiri e sali finzas a bastai, \ condiu cun su grassu ‘e s’intestinu;
casu, corgiu ‘e arangiu e rosmarinu, \ primm’e ddu preni ddu deppis testai.
Su’mpastu, in su’ntestinu ‘enit ripostu \ e prontu po ddu coer’a orrostu.
Sa notti de Natali fu niendu; \ deu soi pulendu sa cogina.
Poi mi sappu ca funti llamendu, \ est sa ‘oggi de ‘omari Natalina:
Sa genti a missa funti tott’andendu \ a iscuriu, sensa lampadina!
Sa luggi de ogni logu nd’ant ispentu \ ca timmìanta su bombardamentu.
Est su segundu toccu ‘e sa campàna:\ ind’un attimu no si riuneus.
E camminaus in fila indiana, \ a una a una in sa ni’ orrueus.
Giudichendu sa genti americana: \ po curpa ‘nsorus mi’ cantu pateus.
Una aggiudat a mei, deu a issa, \orrui orrui lompeus a missa.
(In casa la tavola era pronta: carne arrosto e succo di vinaccia [acquavite], \ e ho trovato il maiale macellato. Aiuto mamma a fare “Su ortau”. \ “Su ortau” è sangue di suino: pane a dadini fino a raddensare, \ pepe e sale fino a bastare, condito con grasso dell’intestino; \ formaggio, buccia d’arancia e rosmarino, prima di riempirlo lo devi assaggiare. \ L’impasto vien riposto nell’intestino, pronto per esser cotto arrosto. \ La notte di Natale sta nevicando; io sto pulendo la cucina. \ Poi mi accorgo che stanno chiamando, è la voce di comare Natalina: \ La gente sta andando a messa completamente al buio, senza lampadina! \ La luce in ogni luogo hanno spento perché temevano il bombardamento. \ È il secondo tocco di campana: in un attimo ci riuniamo. \ E camminiamo in fila indiana, ad una ad una nella neve cadiamo. \ Il mio giudizio sugli americani: per colpa loro guarda quanto patiamo. \ Una aiuta me, io aiuto lei, cadi che ti cadi arriviamo in chiesa.)
Raccontare la propria vita permette a Livia parecchie riflessioni sull’esistenza:
Deo pargiu contari in su futuru, segura de sa nascita e sa morti.
Mancari sia de caratteri forti, de sa dì crasi nemos est seguru,
Ca deppis fai is contus cun sa sorti; però consillu de tenniri duru:
Sa vida non ti ‘onat su chi olis, però pigandeddi su chi podis!
Piga sa vida e tenedda imbrassàda: ti sprizzat beni e mali de ogni poru.
I dda simillu a una figumoru: est bella e bona dopu essi sprugada.
Po medas annos dd’appu pratigada, e pagus bias est de bonu coru;
ma costringedda e diventa prus tostu: chi ti ‘ongiat su beni a dogni costu.
(Io sembro contare sul futuro, sicura della nascita e della morte / Per quanto sia di carattere forte, del giorno dopo nessuno è sicuro, / perché devi fare i conti con la sorte; però consiglio di tenere duro: / la vita non ti dona ciò che vuoi, però prendile tutto ciò che puoi! / prendi la vita e tienila stretta: ti sprizza bene e male da ogni poro. / La rassomiglio ad un fico d’india: bello e buono ma dopo esser sbucciato. / Per tanti anni l’ho vissuta, e poche volte è di cuore buono; / ma costringila e diventa più tosto: che ti dia il bene ad ogni costo.)
Livia Cucca partecipò negli anni ‘50 a una rivolta culminata con l’occupazione del palazzo comunale di Gairo da parte delle donne; queste, stremate dai disastri dell’alluvione, contestavano il sindaco e la sua gestione classista degli aiuti governativi destinati alla cittadinanza. Livia ricordava l’arrivo dell’esercito, la decisa resistenza da lei opposta insieme con le compagne, e gli incontri con Joyce Lussu, giunta per sostenere la loro lotta. Nel raccontare la vicenda Livia esprimeva l’orgoglio per la vittoria, ma anche la consapevolezza di come la forza del gruppo fosse cresciuta notevolmente attraverso lo scambio intenso avvenuto con Joyce.
Le salde capacità mnemoniche permisero a Livia, in età anziana, di registrare su nastro o trascrivere buona parte dei versi tenuti nascosti nell’arco dell’intera vita.
Aresu Lina, Su moru in crobetura (Il moro sul tetto), Millelire Stampa alternativa - Roma 1993.
Tzilla Pedra (nome in sardo di Piera Cilla)
Sa poesia de sas feminas – dae su ‘700 a sos annos chimbanta de su ‘900. Stampato in Italia presso Thefactory, per GEDI Gruppo Editoriale S.p.A.
Pillonca Paolo, Fascismo e clero nel divieto delle gare poetiche, Cagliari, 1977.
Sardegnacultura
©Domus de Janas Editore
Riferimenti iconografici:
Livia Cucca, coll. privata
Voce pubblicata nel: 2023
Ultimo aggiornamento: 2023