Avrei voluto conoscerla Franca, maestra di scuola e di tante altre cose. Dalla sua personalità sono stata conquistata leggendo un libro che raccoglie i suoi scritti. Ho seguito le tracce lasciate dalle sue parole che conducono a mondi perduti e in quei sentieri ho incontrato persone che le erano amiche e che mi hanno raccontato la sua storia.
Franca Spagnolo nasce il venti di marzo a Barbeano, un paese della pianura friulana e si trova, da subito, a vivere fra assenze dolorose. Sono tempi nei quali chi nasce da un’unione non socialmente riconosciuta è illegittimo. Madre e padre non la riconoscono. Pronuncia le prime parole in un brefotrofio a Udine dove le danno il cognome Delfini, storpiando quello del Patriarca (Dolfin) cui è intitolato il palazzo. Nella casa di chi non ha famiglia resta sino a quando la sorella di sua madre e il marito decidono di portarla con loro a Barbeano, diventando i suoi genitori adottivi. Il cognome di Franca diventa Tonello. Di stagione in stagione chiama madre, la zia e padre, lo zio. Scrive, di quegli anni: c«i spostavamo pochissimo, scuola e chiesa erano il nostro itinerario; di rado a Spilimbergo, a seguito di qualche adulto compiacente, sul ferro della bicicletta.»Dimostra volontà e onore, lavorando faticosamente, sin da piccola, i campi di famiglia, con la stessa tenacia degli adulti. Accompagnerà i suoi genitori adottivi sino alla fine della loro vita. Del padre scriverà, nell’iscrizione funebre, che aveva saputo vuotare il calice della vita con rara saggezza.
È dalle vicende dell’infanzia, dai suoi cieli assediati di grigio che Franca fa fiorire la propria etica e il coraggio di vivere. Scriverà più tardi, in versi: «non ci possegga allora l’assenza dolorosa finché dal suolo salirà la linfa a nutrire il pensiero».
La sua intelligenza convince i genitori adottivi a farle continuare gli studi alle Magistrali. È in un collegio a Udine che Franca nutre le proprie aspirazioni. Si nasconde sotto le coperte per continuare a leggere e studiare, con un lume, fino a notte inoltrata. Impara con entusiasmo e diventa maestra. Il suo primo incarico è in un villaggio delle Dolomiti nel quale il sole scompare in autunno e ritorna in primavera. Le bambine con scarpette di corda e velluto la ascoltano con rinnovato stupore perché cerca di insegnare il particolare nell’universale, attraverso la natura. Nel frattempo conosce Luigi Spagnolo e se ne innamora. È originario di Marostica e di quei luoghi ha riflessi negli occhi i ciliegi in fiore. Si sposano e costruiscono il futuro, assieme, a Barbeano. Lei gli suggerisce i ritmi della semina, lui la desidera tra i giacinti odorosi del loro giardino. Dai loro abbracci nascono due figli.
Franca inizia a insegnare alle scuole elementari di Gradisca e di Navarons, due paesi in provincia di Pordenone. Alunni e alunne hanno sguardi sospesi per la profonda semplicità e imprevedibilità con cui insegna loro i ritmi della natura circondandoli di banchi pieni di vasi di gerani, piante di pomodori e fagioli. Suggerisce loro che la vita si può leggere nel colore delle foglie come nella pagina di un libro. Una sua alunna ricorda che «la caratteristica che la distingueva dalla maggior parte della gente era la sua spiccata sensibilità. In un mondo in cui ognuno pensava a sé lei cercava di abbattere il muro di indifferenza facendosi carico dei problemi dei più sfortunati». È per insegnare questo che il ricavato di un mercatino organizzato con le classi viene spedito in Kenia e permette a un ragazzo di pagarsi un anno di studi. Aggiunge ancora la sua alunna: «è un gesto che può sembrare irrilevante, ma rimane ben impresso nella mente di un bambino e lo aiuta ad avere una visione della realtà meno egocentrica.» Le storie le porta in classe: «riteneva che fosse importante per noi comunicare non solo con i nostri coetanei, ma anche con gli adulti e per questo invitava in classe numerose persone a parlarci delle loro esperienze. Era sempre disponibile all’ascolto, a suo parere, tutti avevano qualche cosa da raccontare e da insegnare. Un collega la ricorda scrivendo che «aveva il dono della maieutica: l’arte socratica di far partorire le menti. Franca sapeva quale era il pane buono per nutrire e far crescere la mente e il cuore dei suoi scolari». Con gli allievi, tra le altre iniziative, conduce una ricerca sulla cultura popolare di ieri e di oggi e inizia una corrispondenza con Primo Levi. Un’amica ricorda che «l’autore aveva trovato nella freschezza dei bambini di Navarons e della loro maestra, una piccola pausa di serenità».
In quegli anni il padre naturale affronta il rimorso e la cerca. Iniziano un carteggio, si incontrano e rammendano il loro legame sfilacciato. Lui si è sposato e ha dei figli. Vive in Campania, in una lontananza colorata di nuvole danzanti e verdi ulivi. I fratelli diventano per Franca da subito molti e sono orgogliosi di lei e della sua cultura. Lei sarà sempre presente, andrà a trovarli spesso, scriverà per loro poesie e tornerà a Barbeano con la macchina piena di pomodori, di oli, di quella ricchezza naturale del Sud che amava. Franca sente di avere l’anima zingara di alcuni suoi antenati. Non le importa nulla delle esteriorità, ogni cosa che sia privata di senso e di storia la rende malinconica. Non ha radio e televisione, ma conosce il mondo attraverso se stessa e gli altri. Un’amica ricorda che «su tutto Franca trovava una storia »e che nel raccontarla aveva il dono della parola. Il Friuli è il luogo in cui abbraccia le vite di altre donne, presentandosi nelle loro case nascosta da mimose d’oro o cesti di ciliegie. Ha un semenzaio e un orto botanico dove attinge doni per gli altri mentre parla di storia, filosofia, letteratura. Coltiva letture profonde, un’amica la ricorda entrare «sicura nei mondi di Balzac, Hugo, Zola», aggiunge poi che «faceva uscire d’incanto i protagonisti dei loro romanzi facendo loro prendere le sembianze di qualche comune conoscente o di qualche paesano. Aveva il dono prezioso di parlare con semplicità di grandi cose». A donne e uomini dona le proprie sensazioni: sono poesie che scrive di notte, a mano, su carta seppiata e diventano parole importanti per chi le riceve in occasione di una nascita o di una morte. Ascolta i problemi delle persone e delle famiglie, delle sue risposte tesse un silenzioso bene comune. Ospita nella sua casa animali abbandonati, li cura e li battezza con ironia di nomi variopinti, li chiama “i musicanti di Brema”. Nei primi anni Novanta accoglie e accompagna al futuro, come fosse un figlio, Adrian, un uomo albanese sbarcato in Italia dopo un viaggio travagliato alla ricerca di un altrove più sereno. Ricorda un collega che Franca «sentiva la sinfonia dolce o triste che emanano le anime semplici nella gioia e nel dolore, nei momenti lieti e nelle prove della vita».
Scrive un libro che raccoglie la storia e le vicende di Barbeano che verrà pubblicato solo postumo per mancanza di fondi, nella cui introduzione si ringrazia la maestra Franca da cui tutti hanno «attinto non poca saggezza di scuola e di vita». È inoltre redattrice per molti anni della rivista «Il Barbacian» di Spilimbergo e del semestrale «Il Tamon» edito dal Tupus di Navarons. Quando c’è carenza di articoli, uno lo firma Franca Tonello, uno Franca Delfini e l’altro Franca Spagnolo. Racconta anche storie di donne, ne scorro i titoli: Gli amori e le scelte di Rosina, Una madre per tanti nipoti, Nozze di diamante per Ida, L’emigrante è anche donna, Una donna chiamata Mame, Eugenia, una donna che parla col sorriso, Più forte del suo male, Dalla Russia per amore. Sono scrigni di memoria nei quali lascia spazio anche alla denuncia sociale. A toccarla sono i paesaggi sconvolti, scrive dell’annientamento totale di prati e boschi a opera di “trattori praticidi”, di “una realtà così sconcertante, prossima allo squilibrio ecologico”. I tesori floreali che profumano il mondo, stanno scomparendo. È per questo che Franca ne ama e salva i piccoli semi che per migrazioni secolari si trovano tra le sue mani segnate da mille invisibili cicatrici. Dolorosamente scrive di quanto la rattristi il «pensiero che a soccombere alla fine non sarà solo la nostra dannata specie, ma la vita stessa». Attraverso questi dettagli disperanti trova sempre spazio per ricordare la speranza concreta, quella di «inventarsi uno scopo, reputarsi ancora utili, anzi indispensabili a qualcuno; dimenticare la propria debolezza per aiutare una creatura in difficoltà».
Una malattia che l’accompagna sin dall’infanzia segna i suoi ultimi anni, muore il giorno del solstizio di estate. Sulla sua tomba ha voluto che fosse piantato un rosmarino cosicché la sua anima pensosa diventasse linfa tra polveri dorate di api danzanti.
La ricorda così un’amica: «ed eccomi qua, diceva a noi in redazione, sono un po’ malconcia, mi appoggio al bastone, ma intanto vedete che cammino?».
Franca Spagnolo (a cura di), Cultura popolare di ieri e di oggi, Scuola elementare di Gradisca di Spilimbergo, 1981
Franca Spagnolo, Un piatto per ogni stagione, Udine, Società Filologica Friulana, 1984
Testimonianze di Moira Sandri, Marco Zavagno, Miriam Bortuzzo, Roberta Zavagno, Gianni Colledani, Mario De Corti, Dia Colledani, Anna Maria Ronzat sulla Rivista semestrale «Il Barbacian», Anno XXIX n. 2, Dicembre 1992
Franca Spagnolo (a cura di), Barbeano: vita di paese, Sequals, Grafiche Tielle, 1994
Gianni Colledani (a cura di), Caparentri. Franca Spagnolo. Uomini e tempi della civiltà contadina nel Friuli occidentale, Edizioni Pro Spilimbergo, 2002
Franca Spagnolo, Caleidoscopio. Poesie, Edizioni Pro Spilimbergo, 2005
Referenze iconografiche:
Prima immagine: ritratto di Franca Spagnolo, foto di Gianni Colledani.
Seconda immagine: Franca Spagnolo con una delle sue classi, foto gentilmente concessa da Associazione TUPUS.
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023