Non sono nata in cascina, ma in una casa in paese, dove è nato mio papà e dove mi sono sposata. Successivamente sono andata ad abitare in cascina. Mia mamma era casalinga e mio padre faceva il muratore: era un capomastro, ma purtroppo era più il tempo che era a casa e non guadagnava. Mio padre e mia madre si sono incontrati a Lione: lui era di Calvatone e lei era di Breda Cisone di Sabbioneta. Come tantissimi italiani era andato a Lione per costruire il Duomo e mia mamma era là per lavorare nella trattoria dello zio, anche lui emigrato a cercare fortuna. 1
Eugenia Arnoldi Azzali era una “paisana” della Bassa Padana. La sua casa era, ed è, la sede della Lega di Cultura 2.
Canto, narrazione, memoria, politica. Una visione unitaria, un modo di sentire ed esistere che Eugenia ha custodito ed elaborato, con profondità e disarmante semplicità, parlando sempre e con tutti in dialetto, testimoniando un mondo intero la cui eco non è del tutto smarrita, anche grazie a lei.
Anche il papà era a casa tutti i giorni: a mezzogiorno veniva a mangiare per stare con noi figli e la moglie. Non c’era tanta abbondanza: si mangiava l’uovo diviso in quattro con il filo. Mio padre cercava di tagliarlo alla perfezione, altrimenti erano liti. Io poi non ci vedevo neanche molto e una mia sorella che era terribile mi portava via la mia parte quasi tutte le volte. A 14 anni si cominciava ad andare a lavorare nei campi. Io poi a 22 anni sono andata a Lomazzo, al Cotonificio Somaini. Allora la gente dei nostri paesi era molto ricercata perché eravamo bravi lavoratori. Sono stata là dai 22 ai 27 anni. Eravamo in convitto e non si poteva tornare a casa perché eravamo lontani e il viaggio costava tutti i risparmi. Successivamente ho deciso di ritornare a casa e sono andata a lavorare in campagna: andavo a zappare, prima il frumento, poi le bietole, poi il granoturco. In maggio avevamo in casa i bachi da seta e allora c’era da aiutare la mamma a raccogliere le foglie. Delle mie sorelle due sono andate a servizio, una a 11 anni è andata a fare la bambinaia. Quando ricordo l’infanzia e la gioventù penso che ero contenta perché ero al mio paese e con i miei genitori: meglio mangiare male con la mamma che andare via da casa. Ho trovato il mio futuro marito una sera e mi ha chiesto se poteva venire a trovarmi e io ho detto «Ma sì, proviamo, se non andrà bene, niente». Invece, dopo un anno che gli ho parlato, ha deciso di sposarmi, lui faceva il bergamino. Era del 1910. […] Abbiamo fatto uno sposalizio da poveretti perché erano poveri i miei e i suoi. Però mi hanno vestita di nuovo, allora si usava il nero. Io avevo la dote. Da poveretta, ma l’avevo: 8 lenzuola, 8 paia di federe, qualche camicia, ma di camicie da notte neanche una.
Anche il papà era a casa tutti i giorni: a mezzogiorno veniva a mangiare per stare con noi figli e la moglie. Non c’era tanta abbondanza: si mangiava l’uovo diviso in quattro con il filo. Mio padre cercava di tagliarlo alla perfezione, altrimenti erano liti. Io poi non ci vedevo neanche molto e una mia sorella che era terribile mi portava via la mia parte quasi tutte le volte.
A 14 anni si cominciava ad andare a lavorare nei campi. Io poi a 22 anni sono andata a Lomazzo, al Cotonificio Somaini. Allora la gente dei nostri paesi era molto ricercata perché eravamo bravi lavoratori. Sono stata là dai 22 ai 27 anni. Eravamo in convitto e non si poteva tornare a casa perché eravamo lontani e il viaggio costava tutti i risparmi. Successivamente ho deciso di ritornare a casa e sono andata a lavorare in campagna: andavo a zappare, prima il frumento, poi le bietole, poi il granoturco. In maggio avevamo in casa i bachi da seta e allora c’era da aiutare la mamma a raccogliere le foglie. Delle mie sorelle due sono andate a servizio, una a 11 anni è andata a fare la bambinaia. Quando ricordo l’infanzia e la gioventù penso che ero contenta perché ero al mio paese e con i miei genitori: meglio mangiare male con la mamma che andare via da casa. Ho trovato il mio futuro marito una sera e mi ha chiesto se poteva venire a trovarmi e io ho detto «Ma sì, proviamo, se non andrà bene, niente». Invece, dopo un anno che gli ho parlato, ha deciso di sposarmi, lui faceva il bergamino. Era del 1910. […] Abbiamo fatto uno sposalizio da poveretti perché erano poveri i miei e i suoi. Però mi hanno vestita di nuovo, allora si usava il nero. Io avevo la dote. Da poveretta, ma l’avevo: 8 lenzuola, 8 paia di federe, qualche camicia, ma di camicie da notte neanche una.
Eugenia va così ad abitare con i suoceri, in cascina a Carzago, spersa nei campi. Lì però riesce a incontrare tante donne, anzi “un bel gruppo”: "Si andava a lavorare insieme nei campi. Alcune mangiavano anche assieme fuori nell’aia, ma la mia famiglia no: si mangiava a tavola in casa. Andavamo fuori dopo: facevamo filos".
Fare Filos è un modo di dire che indica quelle chiacchiere che si fanno mentre si lavora: mentre si tira il filo si può conversare, scambiarsi ricette, parlare di quello che succede vicino e lontano.
Nella stalla c’era sempre un personaggio che sapeva raccontare bene e in modo spiritoso i pettegolezzi, anche a partire da un piccolo spunto. Erano quasi sempre storie vere. Le donne, intanto, lavoravano: c’era quella che faceva le calze con gli aghi, quella che filava la lana, un’altra rammendava, perché una volta si rattoppava tanto con le pezze. Noi tenevamo la testa al nostro mestiere e ascoltavamo. A volte se una non era capace di fare un certo lavoro di cucito, l’altra le diceva: prova a darlo a me, guarda, prova a fare così. Ho avuto tre figli maschi. Mi è dispiaciuto non avere una bambina, sono arrivati solo maschi. Quando dovevano nascere veniva la levatrice. Io i miei figli non li ho picchiati tanto, qualche volta qualche tegamata in testa. Una volta i bambini in casa non c’erano mai. Ma se dovevano stare fermi, ci riuscivano: vicino al fuoco per ore con un po’ di pane e un pezzo di formaggio. Mio figlio più grande con la paghetta comperava i lumini da portare al cimitero agli anziani che aveva conosciuto. Era legato al mondo di una volta. Il mondo moderno è stato la sua morte. Non si è assolutamente integrato, fino al punto di morire. La nostra soddisfazione era la famiglia, che i figli crescessero bene. E sia nella mia casa d’origine che in quella da sposata ci volevamo bene tanto. Altre soddisfazioni non ce n’erano, tutto era concentrato lì, nella famiglia, che però era fatta di tante persone. La famiglia una volta era molto unita. Una volta le coppie stavano insieme anche se qualcosa non andava. Allora, quando si viveva tutti assieme, c’era da mandare giù qualche rospo, ma c’era una comunità.
Nella stalla c’era sempre un personaggio che sapeva raccontare bene e in modo spiritoso i pettegolezzi, anche a partire da un piccolo spunto. Erano quasi sempre storie vere. Le donne, intanto, lavoravano: c’era quella che faceva le calze con gli aghi, quella che filava la lana, un’altra rammendava, perché una volta si rattoppava tanto con le pezze. Noi tenevamo la testa al nostro mestiere e ascoltavamo. A volte se una non era capace di fare un certo lavoro di cucito, l’altra le diceva: prova a darlo a me, guarda, prova a fare così. Ho avuto tre figli maschi. Mi è dispiaciuto non avere una bambina, sono arrivati solo maschi. Quando dovevano nascere veniva la levatrice. Io i miei figli non li ho picchiati tanto, qualche volta qualche tegamata in testa.
Una volta i bambini in casa non c’erano mai. Ma se dovevano stare fermi, ci riuscivano: vicino al fuoco per ore con un po’ di pane e un pezzo di formaggio. Mio figlio più grande con la paghetta comperava i lumini da portare al cimitero agli anziani che aveva conosciuto. Era legato al mondo di una volta. Il mondo moderno è stato la sua morte. Non si è assolutamente integrato, fino al punto di morire.
La nostra soddisfazione era la famiglia, che i figli crescessero bene. E sia nella mia casa d’origine che in quella da sposata ci volevamo bene tanto. Altre soddisfazioni non ce n’erano, tutto era concentrato lì, nella famiglia, che però era fatta di tante persone. La famiglia una volta era molto unita. Una volta le coppie stavano insieme anche se qualcosa non andava. Allora, quando si viveva tutti assieme, c’era da mandare giù qualche rospo, ma c’era una comunità.
È da questo ultimo aspetto che bisogna partire per comprendere a fondo l’ambiente d’origine di Genia, un ambiente che lei stessa dichiarava scomparso dopo il 1967, spartiacque di due civiltà, quella contadina e quella dei consumi.
Le sue parole, e la sua vita, sono testimoni di quella cultura che per secoli ha caratterizzato la vita nelle campagne e per buona parte del XX secolo; nella cascina e nel mondo contadino era radicata la solidarietà: per esempio gli scioperi duri del primo e del secondo dopoguerra hanno potuto raggiungere dei risultati grazie alla creazione delle casse di resistenza che facevano fronte alle difficoltà dei contadini in sciopero. La solidarietà di classe è dunque l’humus in cui è vissuta Genia, che ricordava costantemente questo stile di vita.
Nel 1967 nasce la Lega di Cultura di Piadena, di cui Genia è stata fondatrice con il marito Pierino, i figli, Gianfranco, detto Micio, Bruno e Richetto, insieme a illustri intellettuali della cultura popolare e protagonisti della cultura locale come Gianni Bosio.
L’obiettivo della Lega, come recita il suo statuto, è valorizzare la cultura contadina, cosiddetta subalterna, impedirne la scomparsa e conservare la storia dei paisan vecchi e nuovi, visto che ormai da più di vent'anni nelle stalle della bassa lavorano con dedizione nuovi contadini, immigrati, soprattutto indiani. Ma la Lega si prefigge anche di aprirsi al mondo, a tutti coloro che in Italia e in Europa credono in questi ideali e infatti la casa di Genia a Pontirolo, frazione di Drizzona (CR), sede della Lega stessa, è sempre disponibile all’incontro, con qualsiasi espressione d’arte e di vita. Perché Eugenia, cantante dalla voce forte, è stata lei stessa uno scrigno di questa memoria di suoni e parole.
Se ne accorse Bernardo Bertolucci che, nel film Novecento, volle girare la scena dell’ammazzamento del maiale nella cascina di Voltido dove gli Azzali avevano vissuto precedentemente: in quell’occasione poté conoscere Genia e ascoltare la sua voce che intonava stentorea "Quando Bandiera rossa si cantava /a i' men tre volte a i' giorno si mangiava/ e ora che si canta Bella giovinezza/non si sta ritti dalla debolezza!"
Genia parlava sempre nel suo dialetto con chiunque si trovasse di fronte, e questa semplicità, questa caparbietà serena nel perseguire idee e ideali deriva indubbiamente dall’educazione ricevuta dai genitori e dai nonni, socialisti della prima ora, originari di Sabbioneta e di Viadana, paesi fra Mantova e Cremona, che le hanno inculcato il senso della solidarietà anche nei momenti più poveri e più disperati. Ma Genia era anche, a suo modo, religiosa, come testimonia il funerale in chiesa, svoltosi nel gennaio del 2010 e documentato da un video, fruibile sul sito della Lega della Cultura.
La sua fede era caratterizzata da un rapporto diretto e talvolta violento con Dio, come quando morì suo figlio Richetto 3, a quarantatré anni, il 9 agosto del 1981, una morte improvvisa e inaspettata, che le fece più volte esclamare “Signùur càancher”.
Genia chiamava Giovanna Marini “quella del chitaròon” e non si arrabbiava se a notte inoltrata se la ritrovava in cucina con tanta altra gente, reduce magari dai concerti del 1° Maggio in Emilia, tutti a mangiare da lei in cascina.
Lega di Cultura di Piadena, via Piave 25, 26034 Drizzona (CR), tel e fax: +39 0375 980252; micio@legadicultura.it; morandi@legadicultura.it
Università degli Studi di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, D.A.M.S., Vita e cultura contadina nelle campagne cremonesi dell’800 Relatore: Chiar.mo prof. Roberto Leydi, tesi di Laurea di Carmen Carmellino, A.A. 1982-1983
Referenze iconografiche: Immagine su gentile concessione della Lega della Cultura di Piadena.
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023