Perché ci prendiamo cura degli altri anche quando non siamo legati da rapporti personali? Perché lottiamo per la giustizia anche quando non ci riguarda direttamente.1
Capelli corti, occhi sorridenti, modi cortesi, tono di voce calmo e determinato: una persona serena, questa la prima impressione che ho avuto guardando uno dei numerosi video di Elena Pulcini che si trovano in rete; ad ascoltarla meglio ho scoperto la semplicità e il rigore con cui affronta e spiega gli argomenti difficili e urgenti di cui si occupa.
Elena Pulcini, "filosofa gentile"2, è nata all’Aquila nel 1950. Si è laureata nel 1974 in Storia delle Dottrine politiche a Firenze e ha proseguito i suoi studi presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi con Charles Bettelheim. Ricercatrice presso l’università di Firenze, nel 1991 ha conseguito il Dottorato presso l'Università di Paris III-Sorbonne Nouvelle con una tesi su Rousseau. Dal 2001 ha insegnato Filosofia sociale presso l’università di Firenze.
La sua ricerca è caratterizzata da un dialogo continuo con autori del passato e del presente e da un approccio trans- e multi-disciplinare. Ha posto al centro del suo lavoro il tema delle passioni e quello delle patologie sociali della modernità, concentrandosi – soprattutto negli ultimi lavori – sulle trasformazioni antropologiche nell’età contemporanea e proponendo una filosofia della cura per l’età globale. Ha dedicato un’attenzione particolare allo studio del soggetto femminile e dal 2004 al 2007 ha preso parte al network europeo di ricerca “Athena” (European Thematic Network Project for Women’s Studies) diretto da Rosi Braidotti. Ha fatto parte del Comitato Scientifico di varie riviste; il suo libro La cura del mondo ha ricevuto uno dei premi più prestigiosi d’Italia, il premio “Viaggio a Siracusa”. Negli anni più recenti la percezione dell’urgenza dei problemi posti dalla globalizzazione e dai cambiamenti climatici la spinge da un lato a sistematizzare le sue analisi critiche sulla post-modernità e dall’altro a impegnarsi attivamente per promuovere una trasformazione radicale delle mentalità: ecco quindi il moltiplicarsi di partecipazioni a trasmissioni radiofoniche e televisive, ad attività di divulgazione nelle scuole e nelle piattaforme digitali, l’adesione al Manifesto del convivialismo3 e la candidatura alle elezioni europee del 2019 (ma non fu eletta) con la Federazioni dei Verdi.
È morta a Firenze il 9 marzo 2021 per complicazioni dovute al Covid: una beffa, perché delle emergenze, e anche in quella del Covid, Elena Pulcini vedeva non solo il negativo ma anche l’opportunità per un cambiamento di rotta e la possibilità di una nuova collaborazione dell’umanità.
Per ragioni di spazio non potrò accennare neanche rapidamente a tutti gli argomenti sui quali ha lavorato; mi soffermerò solo su un tema che lei stessa indica come improcrastinabile: la necessità di prendersi cura del mondo e la ricerca delle basi motivazionali del nostro agire. Già vent’anni fa denunciava l’urgenza di far fronte, in fretta e insieme, ai tanti rischi globali – adesso ancora più numerosi– capaci, per la prima volta nella storia dell’uomo, di distruggere l’umanità e il pianeta stesso.
Ma di tutto ciò sembra esserci ancora una debole e non generalizzata consapevolezza: "come mai? Perchè non ci facciamo carico della 'cura del mondo' e quindi di noi stessi?" Pulcini correla esplicitamente l’individualismo moderno alla perdita del legame sociale e alla svalutazione progressiva delle passioni.
La prima modernità ci ha consegnato il modello di un’umanità razionale, calcolatrice, mossa dalla passione dell’utile, dall’orgoglio e dal “desiderio di possedere più del necessario”; l’“individuo senza passioni” nasce nel XIX secolo: nella società capitalistica matura, gli ideali egualitari democratici perdono la carica ideale e rivoluzionaria e vengono interpretati unicamente come possibilità di godere di beni materiali. Nasce un Io debole, desideroso solo di benessere, di emulare e di distinguersi dagli altri – la contraddizione è solo apparente –, ma incapace di lottare per questo.
La società globale degli ultimi decenni poi – frammentata, ambivalente, uniformante da un lato ma anche escludente e asimmetrica – ha prodotto vere e proprie torsioni patologiche del soggetto: da una parte un Io illimitato e narcisistico, ammaliato dalle infinite possibilità di consumo; illusione a cui sacrifica lo spazio della relazione, un “Io globale [che] si configura […] come un Io apatico e vorace allo stesso tempo, insicuro e onnipotente, parassitario e acquisitivo; ma soprattutto caratterizzato da un sostanziale atomismo” (Pulcini 2009: 13).
Ad esso fa da contraltare il crescente svilupparsi di "comunità della paura", “sfere comunitarie, ognuna arroccata nella difesa della propria identità, indisponibili al mutamento e alla negoziazione, potenzialmente esposte alla proliferazione di ‘integralismi’ di ogni specie”. (Pulcini 2009: 72).
In sintesi, tanti aggregati separati, indifferenziati all’interno e costruiti sulla contrapposizione noi/loro. Due derive che rendono inverosimile qualunque intervento produttivo contro le minacce globali che l’umanità stessa ha prodotto. Come uscirne? Ripensando il Soggetto, ridando il giusto spazio alle passioni, riaccendendo l’attenzione per il bene collettivo. Dovremmo rinunciare al soggetto sovrano, affrontare il lutto necessario per la sua morte (Butler 2006: 91), accettare la nostra fragilità, ammettere che la vulnerabilità è una “situazione primaria, originaria […] il segno dell’umano” (Pulcini 2020: 116). Il Sé nasce solo nella relazione, da un’intrusione dell'altro, che è ferita ma anche apertura, breccia e che ci fa capire che possiamo salvarci solo insieme. E dobbiamo riconoscere nelle passioni non un limite o un impaccio ma elementi che hanno anche un valore cognitivo-valutativo (come sostiene anche Martha Nussbaum) e rappresentano una risorsa per costruire un sano legame sociale. Non si tratta di sentimentalismo, anzi.
Pulcini non evita le difficoltà, è ben attenta ad analizzare realisticamente le passioni, non ne nasconde l’ambivalenza: ad esempio l’amore può annullarci, la vergogna, che ci fa preoccupare del giudizio altrui, può riattivare una dimensione etica; il risentimento (reazione a torti che ci sono inflitti), l’indignazione (reazione a torti che sono inflitti ad altri) e anche l’ira, come scrive Nussbaum, possono diventare “una forza fondamentale per la giustizia sociale e la difesa degli oppressi” (Pulcini 2020: 65); ambivalenti sono le passioni anche nelle relazioni tra individui: ad esempio, nella relazione di cura tra badante e assistito/a possono nascere affetto e familiarità ma anche rabbia e animosità; è importante riconoscere anche i sentimenti negativi e – sempre – rispettare l’Altro. Per questo è indispensabile un’educazione alle e delle passioni, che unisca la conoscenza e la comprensione dei fenomeni (guerre, sfruttamento, crisi ambientali…) che minacciano il futuro e agiscono con pesanti conseguenze già oggi e la mobilitazione di passioni: l’empatia, l’indignazione, la compassione, la preoccupazione per chi è lontano e per chi non è ancora nato.
Paideia tanto più urgente ora che emergono nuove figure dell’Altro: l’Altro distante nello spazio, lo Straniero che viene per restare, l’Altro distante nel tempo: se è relativamente facile identificarsi col prossimo, simile a noi, è molto più difficile capire cosa dobbiamo a queste figure dell’Altro, la cui presenza può generare paura e risentimento o – come per coloro che ancora non sono nati – indifferenza.
È necessario riconoscersi parte di un’unica umanità (ciò che Etty Hillesum definiva “l’amore elementare per l’umanità”) e di una comunità transgenerazionale (tanto più ora che la globalizzazione mette in pericolo il futuro delle nuove generazioni); dobbiamo, come suggeriva H. Jonas già nel 19794“agire in modo da non danneggiare i posteri […] non privarli di opportunità basilari (come il diritto a un ecosistema funzionante o l’accesso alle risorse vitali)” (Pulcini 2020: 133), garantire loro “non solo la sopravvivenza ma anche la possibilità di una vita degna di essere vissuta” (ivi: 139).
Bisogna attivare la passione del dono, superando il paradigma dominante basato sui valori dell’utilità e dello scambio. Diventare consapevoli che siamo tutti in debito – se non altro per aver ricevuto il dono della vita – schiude alla logica della cura e del dono: aperto a una reciprocità indiretta, può essere rivolto a sconosciuti (penso, alla donazione del sangue, alle banche del tempo o all’impegno di tutela dell’ambiente e alle Generazioni Future), è “atto libero e gratuito” ma non immotivato; la scommessa consiste nel credere che l’umanità non sia animata solo da motivi egoistici, ma che gli uomini “agiscano anche spinti da un insieme di motivazioni, come la generosità e il desiderio di dare, l’alleanza e l’amicizia, che fanno del legame sociale il fine stesso dell’azione”. (Pulcini 2001: 177)
Prossima alla dimensione del dono è quella cura per5, per noi stessi, per gli altri, per il mondo: una chiave fondamentale per costruire il futuro. Tradizionalmente affidata alle donne la cura non è l’attitudine biologica di un soggetto che trova la propria naturale vocazione nell’oblio di sé e nella dipendenza dall’altro, ma si configura al contrario come la scelta libera e consapevole di un soggetto che è capace di coniugare autonomia e dipendenza, libertà e relazione. Si può supporre che proprio in virtù della loro secolare familiarità con questa dimensione, le donne possono avere un accesso privilegiato all’attenzione e alla sollecitudine verso l’altro; purché però siano capaci di disalienare la cura e di assumerla liberamente a partire dal riconoscimento del suo valore universale.6
Da sola, la cura non basta: c’è bisogno anche di giustizia. Quest’ultima si preoccupa della difesa dell’uguaglianza e di diritti imprescindibili ma può essere “troppo inflessibilmente astratta” (Pulcini 2020: 38); la cura coltiva le relazioni di fiducia, ma può facilmente scivolare in una dimensione sacrificale ed esclusivamente privata, da cui deve essere liberata: ad essa va riconosciuta una funzione pubblica e universale, pratica e perciò politica.
Per questo abbiamo bisogno di entrambe, dell’imparzialità e dell’aspirazione all’equità che si esprime nelle passioni della giustizia, come pure della sollecitudine capillare e dell’affettività eccedente che si manifestano nella cura. Il nostro compito è cercare di volta in volta di individuare le strategie per rendere i due paradigmi etici più efficaci (Pulcini 2020: 144).
Se vogliamo “generare” futuro dobbiamo costruire un soggetto emozionale, inclinato verso l’altro7, imparare, tutti insieme, a praticare un’arte di vivere insieme (con-vivere) che consenta agli esseri umani di prendersi cura gli uni degli altri e della Natura: cura della relazione, cura del mondo. […] credo anche che essa non possa essere affidata al senso del dovere o a imperativi astratti, ma appunto alla consapevolezza di appartenere a un’unica umanità (Pulcini 2013: 101).
Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino, 2001,
Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura, Bollati Boringhieri, Torino, 2003
La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri, Torino, 2009
Cura si sé, cura dell’altro, Thaumàzein, 1, 2013, Vol. 1 (2013): Cura sui e autotrascendimento. La formazione di sé fra antico e postmoderno. | Thaumàzein | Rivista di Filosofia (thaumazein.it),
Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale Bollati Boringhieri, Torino, 2020.
Associazione di Filosofia Sociale per la Cura del mondo vivente
Voce pubblicata nel: 2024