Ha studiato danza a New York e parla con accento toscano. Vive infatti a Firenze. Ma senza gatti per casa (a New York ce n’era uno, siamese), né mariti. Anche se, come ogni persona intellettualmente ricca a cui non fa difetto il buon senso, conosce i limiti della solitudine. Condizione di cui non credo voglia abusare. Non si trucca, ma si tinge i capelli. Si è assunta, da sola, un compito difficilissimo. Fare coreografia contemporanea in Italia.
Come danzatrice ha studiato soprattutto alla scuola della Martha Graham Dance Company. Qui già emerse con uno spiccato senso per la composizione. Fu invitata, fra le pochissime, a produrre per il saggio finale una sua prima piccola cosa, non senza segnalati risultati. Lei stessa, mi dice, conserva ancora le copie di quelle prime recensioni. Presso la scuola della Graham, credo abbia acuito e raffinato, inoltre, una certa austerità meditativa, felice assai in sede di elaborazione di linee e di forme, e per un aperto confronto con un ambiente impegnato. Questa sua nervosa audacia risulta, invece, rischiosa nelle relazioni con un mondo povero e provinciale, e maschilista, come quello della danza in Italia. È stata uno dei fondatori della compagnia italiana Kinkaleri, formazione tra le più segnalate nel panorama europeo della performance contemporanea, con cui ha collaborato attivamente fino al 2007.
Ha deciso di lasciare, anche per verificare una innata sua pulsione a realizzare in autonomia. È stato, questo, un gesto pieno di speranza. Altre, meno discrete nei confronti della vita, fanno anche dei figli.
Come interprete è danzatrice di nervosa precisione emotiva e di forte, istintiva presenza. È spesso al servizio della compagnia MK, in una relazione davvero fraterna con Michele Di Stefano, performer e coreografo capace di ascoltare e di costruire spazi per l’altro. Ha danzato anche per Virgilio Sieni, e ancor prima ha lavorato nel progetto Stoa di Claudia Castellucci della Raffaello Sanzio.
Più di recente ha debuttato al festival Aperto di Reggio Emilia Danza con un esteso progetto dal titolo Dance N. 3 (2009). Qui ha chiesto a tre diversi coreografi di rimontare su di sé, in tre distinti assoli, una partitura, composta di materiali fra i più variegati, precedentemente da lei predisposta: solo attraversando e oltrepassando le regole, scomponendo e ricomponendo le norme che ne presiedono la sua meccanica, Cristina realizza la danza come un atto di remissione, e insieme di resistenza.
Possiede una forte propensione speculativa e un’attenzione anche agli aspetti teorici del fare coreografia, non meno che agli aspetti mentali e mnemonici della costruzione delle immagini. La coreografa Rizzo non sa però dare i numeri. Non appartiene al novero di quei coreografi che si contano già a casa la musica, per non far perdere tempo, e pensieri, ai ballerini. È il suo modo di pensare, e di vivere, il contemporaneo.
Ma è soprattutto grazie al Balletto di Toscana Junior, che Rizzo può realizzare alcune importanti residenze coreografiche, tra cui il lavoro suo più meritorio e riconosciuto: La Sagra della Primavera (2008). Con un’idea coreografica risolutiva e ben meditata, l’impervia partitura di Stravinskij si dispiega qui nelle forme di un ensemble tutto maschile. L’unisono dello svolgimento rimanda a un destino comune che è insieme condanna e conforto, e la qualità dell’energia unica che emerge da questa comunità di uomini conosce la grazia dell’inorganico. La tensione emozionale del gruppo, ben calibrata in soluzioni di movimento mai scontate, è capace di raccogliere anche le provocazioni più difficili della coreografa: la distorsione delle successioni, i difficili parallelismi dei corpi, i respiri orchestrati per le dinamiche ritmiche. Insomma, si tratta realmente di uno dei pochi capolavori di danza contemporanea prodotti in Italia negli ultimi anni.
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023