Antonietta Profita nasce nel 1928 a Castellana Sicula nelle Madonie, uno dei paesi capofila nelle lotte per l’assegnazione delle terre incolte ai lavoratori della terra. Dalla fine della guerra sino al 1956-1957 nelle campagne italiane, e con particolare intensità nella Sicilia latifondista, si svolse una battaglia storica tra braccianti e contadini contro i proprietari dei latifondi, i baroni, gli agrari, che avversarono con ogni mezzo l’applicazione delle leggi che permettevano per la prima volta di distribuire terre alle famiglie povere affinché potessero coltivarle e trarne di che vivere. Ci furono scontri tra occupanti con la forza pubblica e l’esercito. Le cronache del tempo riportano uccisioni, casuali o in agguati, arresti e condanne, stragi. Di quegli anni la storiografia ha solo recentemente approfondito le tematiche e il ricordo; nella narrazione ufficiale raramente viene sottolineato il ruolo che le madri, mogli, sorelle o figlie ebbero in quel movimento che scosse un’Italia ancora feudale nelle campagne.
Antonietta partecipò sin da giovanissima con le altre “figlie della terra” all’occupazione dei fondi del circondario e come molte della sua generazione, Lucia e Concetta Mezzasalma, Calogera Castellana, Rosaria Capaci e altre, sviluppò consapevolezza e autorevolezza nelle rivendicazioni. Divenne presto una dirigente comunista, si spostò per la Sicilia dalle terre occupate alle zolfatare dove scioperavano i minatori; nel 1950 fonda la sezione dell’Unione Donne Italiane delle Madonie.
Queste nuove donne, della Sicilia e del Mezzogiorno, le ritroviamo alla testa di cortei mentre guidano migliaia di occupanti, giovani e fiere, magari a dorso di un mulo, allora unico mezzo di trasporto della povera gente, con una bandiera in mano. Non furono infatti solo uomini a partecipare alle lotte, numerosissime furono le donne sempre in prima fila e con i figli: mosse dalla volontà di aiutare e proteggere i loro uomini, e perché speravano che cambiando le regole dell’economia, sarebbe cambiata anche la loro vita e la considerazione nella società. Non bastarono le leggi e i decreti a fare giustizia di secoli di soggezione e sfruttamento; la maggioranza rimase con “gli occhi chini e i manu vacanti”, la disoccupazione e la povertà non si risolsero con qualche ettaro di terra espropriata, le cooperative contadine non potevano sostenere la concorrenza del mercato europeo e ancora una volta fu l’emigrazione in massa verso il Nord Italia e il resto del mondo l’unica alternativa delle popolazioni rurali.
Con lo svuotamento di intere zone agricole si risolse per lo Stato un conflitto sociale di portata epocale che durava dalla fine dell’Ottocento, con la sconfitta di un’intera classe di lavoratori tra braccianti e contadini che fino agli anni Quaranta e Cinquanta erano la maggioranza della forza attiva nel Paese. A distanza di pochi decenni si vorrebbe ridimensionare le proteste, le vere e proprie rivolte organizzate, relegandole nelle spiegazioni antropologiche della perdita della pazienza millenaria del buon contadino, ma sta di fatto che nei libri di storia o non se ne parla o vi si accenna nell’ambito della più reiterata questione meridionale. Di fatto, i grandi proprietari terrieri e i nobili di antico “lignaggio” sono ancora proprietari delle loro immense patrimonialità e anche se l’agricoltura non è più il settore trainante dell’economia italiana è altresì vero che nessuno tra gli eredi di quei milioni di lavoratori agricoli senza terra di allora ne possiede oggi.
Voce pubblicata nel: 2020
Ultimo aggiornamento: 2023