In qual letargo indegno Languisci, Arcadia mia?
[...]
All’umile virtute
Fa il vizio oltraggi e danni,
Lacero vel la chiude,
La opprimono gli affanni
Angela nacque il 20 dicembre da Pietro Rinaldo, giardiniere, e da Lucia. Visse, dapprima, alle pendici del Montello, successivamente ebbe inizio il suo lungo pellegrinaggio al seguito del padre tra le numerose ville patrizie della pianura veneta dove il padre prestava servizio. L’infanzia e la prima giovinezza di Angela scorsero quindi tra meravigliosi paesaggi, boschi, pendii e ruscelli naturali fino ad arrivare tra le siepi ed i boschetti, laghetti artificiali e fiori di serra nei giardini predisposti al diporto delle nobili dame. Grazie proprio a questi continui trasferimenti Angela entrò in contatto con il mondo aristocratico di nobili e letterati dai quali venne ben accolta, nonostante la distanza sociale. Imparò da sola a scrivere e a leggere, a quattordici anni ricalcando le lettere dell’alfabeto da fogli stampati poggiati sul vetro della finestra. Cominciò così a comporre i primi versi in genere anacreontico. Angela racconta questo periodo della sua vita nella sua autobiografia. La prima produzione artistica della Veronese si insinua sulla scia lasciata da Jacopo Vittorelli al punto che qualcuno la definì allieva del Bassanese. Angela frequentò i salotti di Isabella Teotochi Albrizzie della contessa Spineda dove, così sembra di capire dalla Vita, i convenuti non apprezzavano tanto la poetessa quanto il “fenomeno”: «il gioco d’Arcadia giunto al suo limite nelle pastorellerie di una pastorella vera che si rispediva, finito il gioco, al suo posto in fondo al giardino» per usare le parole di Pastore Stocchi dall’introduzione alla Vita. Fortunatamente non tutti erano di questo avviso. Angela strinse amicizia con Cesarotti, Angelo Dalmistro e, più tardi, con Carrer. Grazie anche al Cesarotti, Anglaia Anassillide - questo il suo nome arcadico - fu inserita nel piccolo mondo della cultura veneta dove pareva avviata alla conquista della sua autonomia letteraria. Nel momento più importante per il suo riconoscimento, fu brutalmente riportata alla realtà della sua dimensione sociale essendo obbligata alle nozze con un cocchiere. Tutto questo non le toglieva né le amicizie letterarie né, tantomeno, la voglia di continuare a scrivere. Lei stessa racconta i momenti a disposizione per la composizione: «nella placidissima calma del mio imeneo… approfittando del favore d’Apollo nell’ore che avanzavano alle domestiche faccende». Da questo momento la produzione letteraria della Veronese fu alla volta della poesia d’occasione.
Il periodo seguente al matrimonio è descritto da Mario Pieri nel suo volumetto di Rime:
«Ella poscia (la poveretta!) si maritò ad un cocchiere, che facevale stampare e ristampare quel volumetto, sforzandola ad aggirarsi qua e là con esso per le case dei Signori ad accattar quattrini, a guisa di colui che va vendendo storie e leggende per la città; e scrivea di quando in quando eziandio qualche sonetto o canzonetta in occasione di nozze o di laurea o di prima messa, per commissione, e per guadagnare uno scudo; né salse più alto, anzi scese ogni giorno più basso, oppressa dall’avversa fortuna». Con maggiore indulgenza, ma confermando in sostanza il triste quadro del Pieri scriveva la Canonici-Fachini, sua contemporanea: «Corredata di bel sapere, lo sguardo meriterebbe pietoso d’illustre mecenate che onorandone la virtù, la innalzasse a più decoroso posto, togliendola così all’aspra laboriosa sua vita: ma paga di se stessa nulla chiede, e trae gli onorati suoi giorni nella tristezza e nella oscurità senza lagnarsi delle ingiurie della fortuna nemica». Del resto è triste, ma quanto interessante, il ritratto che lo stesso dà di Angela: «Una figura esotica, goffa; faccia lunga e secca e tutta abbronzata dal sole, voce spaventevole, modi e vestimenti zotici, e troppo franchi a un’ora; sembra una delle Parche», una descrizione degna di una china di Hogarth.
E di analoghe scene è zeppa la sua autobiografia [1]:
«La prima disgrazia che mi successe in Venezia fu la perdita della miagatta morta decrepita sulla stessa seggiola dove io ero solita di accarezzarla. La piansi alla disperata; il mio genitore lodò le mie lacrime, poiché erano non dubbia prova della mia sensibilità. Mia madre e mia nonna le biasimarono dicendo che per le bestie non bisognava piangere. Chi di loro avesse più ragione lascio giudicare a chi avrà avuto la sofferenza di leggere fin qui queste memorie. L’estinta bestiola fu seppellita in fondo all’orto; un garzone lavorante nel suddetto gli piantò sopra il tumulo funereo, per compiacermi, un bel rosaio, le cui rose io chiamai sempre le rose della gatta».
Angela Veronese si spense a Padova l’8 ottobre 1836. Nell’arco della sua vita aveva pubblicato diverse opere fregiandosi di titoli non sempre verificabili. Nel 1836, con il titolo di “Accademica Tiberina” pubblicò una lunga novella in prosa, Eurosia. Altre opere videro le stampe sotto il nome di Anglaia Anassillide. Nel 1813 Angela fu effettivamente ascritta anche all’Accademia degli Agiati in Rovereto, mentre non risulta dai documenti il suo accoglimento nell’Accademia romana dell’Arcadia né in alcuno dei suoi “satelliti”.
Tornando alle opere pubblicate è da segnalare che molti versi e qualche prosa furono pubblicati sparsamente in raccolte d’occasione, talvolta in periodici, talaltra in fogli volanti. La prima edizione di Varie poesie di Angela Veronese trivigiana, sconfessate dall’autrice, furono pubblicate a Venezia presso Francesco Andreola nel 1804. Il 1807 è l’anno dell’edizione bresciana delle Rime pastorali di Anglaja [sic!] Anassillide. Nel 1817 l’opera fu ripresa, corretta e ampliata per i tipi padovani di Bettoni e Compagno.
NOTE
1. Disponibile al sito della Biblioteca Comunale di Breda di Piave.
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Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023