Nelle nebbiose mattine cremonesi, lungo la strada che porta alla stazione, spesso i lampioni ancora accesi, capitava di vedere l’esile figura di una suora che accompagnava qualcuno messo male. Un giovane dagli occhi incavati, una ragazza con i segni della paura e della violenza, un vecchio che si reggeva a stento sulle gambe. Erano immagini fugaci, che svanivano nella nebbia, ma che lasciavano un segno in chi le vedeva. E ancora poteva capitare di incontrare questa donna vivace in una malandata osteria dei vecchi vicoli della città, insieme ad un gruppo di giovani, dopo una riunione che continuava informalmente intorno a un tavolo. Agata Carelli è stata una suora scomoda in una comoda società cremonese, borghese e pasciuta, che alla fine degli anni Settanta si è vista improvvisamente travolta dal fenomeno della droga, del tutto impreparata ad affrontarlo. Insegnante di filosofia e preside dell’Istituto canossiano cittadino, per prima Agata apre le porte del convento ai tossicodipendenti ascoltando, pensando. Nel 1978, proprio in alcuni locali del convento, che tra l’altro ospitava l’educandato delle studentesse dell’Istituto magistrale da lei diretto, fonda la prima comunità per tossicodipendenti, da sola, ma insieme ad alcuni volontari e alle consorelle che colgono la lungimiranza del suo progetto. Prima istintivamente, poi in modo sempre più razionale e consapevole, Madre Carelli ha sempre più specializzato la comunità per tossicodipendenti, gestita in seguito dall’associazione di volontariato Gruppo Incontro: da quel momento in poi varie esperienze la portano a stringere rapporti sempre più concreti con le istituzioni, ormai impegnate nel contrastare gli effetti nefasti della tossicodipendenza. La comunità si trasformerà in seguito in Centro di Pronto Intervento, aderirà al C.N.C.A (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza) e continuerà la sua opera, con la gestione del progetto “Ulisse”, da 11 anni impegnato nel reinserimento sociale e lavorativo di giovani in condizione di svantaggio.Madre Carelli anticipò con grande lungimiranza quello che tutt’oggi è un caposaldo del Terzo Settore: «Il volontariato non deve essere una delega dell’Ente pubblico e non deve neppure operare in modo sporadico e personale, ma deve diventare sempre più attivo attraverso la conoscenza profonda del problema da affrontare. È più efficace se costituito giuridicamente, organizzato come gruppo sotto tutti gli aspetti e avente anche una certa incidenza sull’Ente stesso. Necessitano persone preparate che conoscano bene il problema da affrontare e che offrano un servizio continuativo, questo anche per ottenere dei riconoscimenti […] a livello finanziario. […..]L’Ente pubblico non può arrivare dappertutto, inoltre ad esso non giungono tutte le segnalazioni ed esso non riesce infine ad offrire tutte le risposte di cui la gente necessita. […] L’Ente poi non può garantire un servizio immediato.Il volontariato ,al contrario, dispone di un servizio più celere. Il volontariato non ha potere :offre solo le sue persone e il suo servizio». («Cremona Produce» n ° 4 / 1987).E ancora più intelligentemente Agata Carelli comprende che non basta “fare”, ma occorre anche studiare, conoscere da vicino i fenomeni, e dunque fornire al volontariato, ma anche a tutto il privato sociale e agli stessi servizi pubblici, strumenti idonei affinché la società tutta diventi comunità educante e solidale. E così nel 1987 dà vita, in collaborazione con il mondo del volontariato e con le istituzioni, al Centro Studi sul disagio e l’Emarginazione Giovanile, attivo da oltre 23 anni e punta di diamante dei centri di documentazione sociale dell’Italia settentrionale.
«Cremona Produce» n ° 4 / 1987; n ° 5/2010;
Natalina Coelli, Una preziosa vagabonda della carità, Cremona 1995
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2012