Ho trascorso la maggior parte della mia esistenza a studiare la vita di altri popoli -popoli lontani- perché gli americani capissero meglio se stessi. I popoli primitivi, mancando di scrittura come di ogni altra possibilità di testimonianza che non sia il loro linguaggio parlato, dispongono solo di se stessi per esprimere quello che sono.
Pioniera nel campo degli studi antropologici, ricercatrice e viaggiatrice instancabile, Margaret Mead dedicò tutta la sua vita allo studio dei popoli e delle culture altre rispetto a quella occidentale. I suoi lavori contribuirono a rivelare il ruolo potente e determinante dei sistemi simbolici e culturali nella costruzione delle organizzazioni sociali e nella definizione dei ruoli di genere.
Fu autrice di circa 1500 tra pubblicazioni e filmati, tra cui più di 40 libri e oltre 1000 articoli tradotti in molte lingue. La sua straordinaria capacità divulgativa le permise di raggiungere ampi strati di pubblico, pur mantenendo il rigore e la serietà della ricerca. Una personalità, quella di Mead, curiosa, libera e coraggiosa formatasi in una famiglia, che come lei stessa scrisse la educò con due generazioni di anticipo rispetto al suo tempo. Ne L’inverno delle more, la sua autobiografia, ripercorrendo gli anni dell’infanzia scrive:
(…) per tutta la mia fanciullezza ho condiviso gli intensi rapporti di mia nonna con il passato e con il presente. Ma fu anche perché ero figlia di due sociologi che erano profondamente interessati alla situazione del mondo. Per me essere allevata in modo che potessi diventare una donna capace di vivere in modo responsabile nel mondo contemporaneo e imparare a diventare un’antropologa, cosciente della cultura in cui vivevo, furono la stessa cosa.
Nacque a Filadelfia nel 1901 da una famiglia di religione unitaria: era la primogenita di quattro figli. Suo padre, Edward Sherwood Mead, era professore di economia all’Università di Pennsylvania, un uomo dedito agli studi, conservatore, intransigente. Mead lo descrive nella sua autobiografia come un uomo dotato di una visione cruda, a volte scandalosa della realtà, ma che le insegnò a tenere uno sguardo fermo e concreto sulle cose, a non sradicare mai il pensiero dal concreto, dai fatti. Osservare, ascoltare, trovare le relazioni tra gli eventi, saranno stimoli fondamentali per la crescita e l’affermarsi del metodo di ricerca di Mead.
La madre, Emily Fogg, era una sociologa, studiosa delle condizioni degli immigrati italiani negli stati Uniti. Una donna “decisa e impetuosa”, austera, sensibile verso il prossimo e dedita a opere di solidarietà per le classi più povere. Altra figura fondamentale nella crescita di Mead fu la nonna paterna, insegnante e ex preside, una delle poche donne laureate dell’epoca. “Fu la persona che esercitò nella mia vita l’influenza più decisiva”, ricorda Mead ne L’inverno delle more. Le insegnò ad osservare il mondo annotando ciò che vedeva, ad interrogarsi sul senso delle cose, a meravigliarsi della natura e della vita osservandola in tutte le sue manifestazioni, “a godere nell’imparare”.
Credo sia stata la nonna a trasmettermi la mia disinvolta accettazione dell’essere donna. (…) Era andata all’università quando la cosa era molto insolita per una ragazza, imparava con rapidità e sicurezza tutto ciò a cui prestava la sua attenzione, si era sposata e aveva avuto un figlio e una propria carriera. Tutto questo valeva anche per mia madre, la quale però era colma di un sentimento appassionato per la condizione delle donne, e forse sarebbe stato così anche per la nonna se il nonno fosse vissuto a lungo e lei avesse partorito cinque figli e avuto poche occasioni di usare le sue doti particolari e la sua preparazione culturale.1
È a partire dalla consapevolezza di questa genealogia delle donne che l’hanno cresciuta che Mead riconosce di aver imparato sin da bambina che “l’intelligenza non ha sesso”, e a guardare il mondo indagandolo a partire da sé, ma allo stesso tempo compiendo un passo indietro per riconoscere l’originalità dell’altro in tutta la sua alterità, nell’ascolto che nasce dalla meraviglia della diversità.
Fu la nonna a seguire l’istruzione dei nipoti, Margaret fu iscritta a scuola solo al compimento dell’undicesimo anno. Frequentò in modo comunque saltuario le lezioni, in quanto i genitori preferirono seguire l’istruzione dei figli perché non fossero escluse anche lezioni pratiche tenute da artigiani dei luoghi in cui abitavano: intagliatori, addirittura un carpentiere per l’acquisizione di nozioni di falegnameria, pittori. Questa educazione libera, non convenzionale, aperta ad una pluralità di saperi, rappresentò una riserva di conoscenze e abilità che le furono fondamentali per sviluppare un suo metodo nella ricerca etnografica di campo, ancora tutta da definire e sistematizzare.
Il padre avrebbe desiderato per lei un futuro come infermiera, ma per Margaret invece frequentare l’università “significava divenire un essere umano completo”, come scrisse nella sua autobiografia. Con il sostegno della madre riuscì a superare le resistenze paterne e a diciassette anni si iscrisse al college, il DePauw, lo stesso che aveva frequentato il padre, in una sorta di raggiunto compromesso. L’esperienza di studio deludente la spinse a trasferirsi poi al Barnard College, dove scelse di specializzarsi in scienze sociali seguendo gli insegnamenti di antropologia di Franz Boas, tra i primi studiosi a lavorare intorno alle differenze storiche e culturali tra i popoli. Fu qui che avvenne un altro incontro determinate per la sua vita di donna e studiosa: quello con l’antropologa Ruth Benedict. Un sodalizio intimo e intellettuale che durò fino alla morte di Ruth e che fu unico e irripetibile per entrambe:
Leggevamo e rileggevamo reciprocamente i nostri lavori, scrivevamo poesie in risposta a poesie, ci confidavamo le nostre speranze e le nostre preoccupazioni (…) Quando morì, avevo letto tutto ciò che lei aveva scritto e lei aveva letto tutto ciò che avevo scritto io. Nessun altro lo aveva fatto, e nessun altro lo fa ora.2
Conseguita la laurea nel 1923 si sposò con un compagno di corso, nonostante l’opposizione del padre che le tolse ogni appoggio economico per la specializzazione. Dovette fare diversi lavori per mantenersi, oltre a essere nominata assistente alla cattedra di economia e sociologia nell’università in cui si era laureata. Conclusa la tesi di specializzazione, Margaret matura il desiderio “di avere una popolazione sulla quale fondare la sua vita intellettuale”. Desiderava conquistare, appartenere ad un luogo di ricerca, viaggiare, esplorare nuove culture in una sete di conoscenza e curiosità verso il mondo che la animò per tutta la vita. Con determinazione riuscì ad ottenere una borsa di studio per intraprendere una ricerca sulle popolazioni delle isole Samoa, terre disperse nell’oceano Pacifico allora considerate troppo lontane e pericolose per una donna della sua giovane età e costituzione.
I preparativi del viaggio furono complicati: l’ingombro delle attrezzature di ricerca, macchine fotografiche e da presa erano un ostacolo importante per il trasporto, i visti, i vaccini, le complicazioni non indifferenti legate al vestiario adeguato per una donna, la lingua che le era totalmente sconosciuta e che dovette imparare in breve tempo. Arrivata sul campo visse con una famiglia locale apprendendo la lingua e i modi di vita delle popolazioni samoane: come mangiare, sedersi, ballare, come stabilire un contatto e delle relazioni in base al rango delle persone. Trascorse sul campo nove mesi, raccogliendo osservazioni, censendo la popolazione, intessendo relazioni con le giovani adolescenti oggetto del suo studio e fondando un suo metodo di ricerca etnografica.
I risultati del suo lavoro vennero pubblicati nel 1928: Adolescenza in Samoa, studio psicologico della gioventù primitiva per la società occidentale. Lo studio metteva in evidenza come l’adolescenza per le ragazze samoane non rappresentasse un periodo di crisi, ma si determinasse come lo sviluppo conseguente alla maturazione di un insieme di attività e interessi vissuti in maniera non conflittuale, in quanto assenti nella società la competizione e la repressione sessuale tipica invece delle culture occidentali. I risultati della ricerca si rivelarono di portata rivoluzionaria: per la prima volta l’attenzione dello studio dei fenomeni culturali venne focalizzata su un campione femminile definito nell’età della prima mestruazione, inoltre Mead pose al centro della ricerca i comportamenti sessuali, considerati non solo in quanto determinati dalla natura, ma espressione dei modi di una data cultura, cioè dall’insieme dei valori simbolici che la determinano.
Nel viaggio di ritorno conobbe lo psicologo Reo Fortune, ne rimase profondamente colpita, tanto da decidere di divorziare e di risposarsi con lui. Insieme intrapresero diversi viaggi in Nuova Guinea dedicandosi allo studio di come la cultura narrativa e orale delle popolazioni locali influenzasse il temperamento dei bambini. Il lavoro compiuto fu colossale e innovativo: Mead studiò i giochi e l’immaginario dei bambini giungendo a sostenere che gli stadi di sviluppo infantile non fossero uguali in tutte le popolazioni ma venissero condizionati dalle aspettative socio-culturali e dall’ambiente di appartenenza.
Nel 1935 divorziò anche dal secondo marito. Da sola continuò a compiere viaggi in tutto il mondo: Polinesia, Nuova Guinea, Asia, Europa, condusse lavori sul campo, tenne conferenze interessandosi di come nelle diverse società venissero normalizzati i cosiddetti individui devianti. In questi anni pubblicò altri due studi fondamentali: Sesso e Temperamento e Maschi e femmine centrati sull’analisi dei rapporti di potere che le società costruiscono intorno all’appartenenza di genere, andando a scardinare tanto la tradizionale gerarchia tra i sessi, quanto la pretesa universalità della famiglia patriarcale.
In ambito accademico i suoi lavori vennero screditati dagli studiosi più conservatori che ne contestavano la metodologia, il linguaggio ritenuto eccessivamente divulgativo e narrativo, giungendo a definirla “romanziera” anziché scienziata sociale. Ma se da una parte del mondo accademico divenne oggetto di svalutazione e scherno, dall’altra il successo editoriale dei suoi scritti le procurò una fama internazionale. Mead continuò a condurre i propri studi mantenendo fede alla sua profonda esigenza di divulgazione, fermamente convinta che il risultato delle sue ricerche dovesse rivolgersi al più ampio numero possibile di persone, non solo ad una ristretta cerchia di addetti ai lavori.
Donna libera e fedele a se stessa, nel 1936 divorziò per la seconda volta per risposarsi con Gregory Batson, unione da cui nacque una figlia, Catherine. Ma anche questo matrimonio si interruppe e si concluse con un’ennesima sofferta separazione. Negli ultimi anni della sua vita continuò a lavorare instancabilmente, repertoriando l’enorme mole di materiale raccolto nei numerosi viaggi, insegnando e scrivendo. La perdita dell’amica, compagna di una vita Ruth Benedict, che fin dai tempi del college le era stata accanto in una relazione intellettuale e di profonda intimità fuori da ogni convenzione sociale e oltre i matrimoni di ciascuna, la colpì duramente.
Morì nel 1978 lasciando al mondo la ricchezza di un’inestimabile lavoro intellettuale che trova il suo centro nella rivendicazione dell’ irriducibile complessità delle differenti culture dei popoli del mondo. Un lascito quello di Mead, che risuona come un monito di libertà anche nel condurre se stessi contro ogni pregiudizio.
La conoscenza di ciò che l’uomo è stato ed è- può proteggere il futuro. C’è speranza, io credo, che l’avventura umana venga considerata come un tutto e che la conoscenza dell’umanità, perseguita nel rispetto della vita, possa portare vita.3
Opere L’adolescenza in Samoa. Uno studio psicologico della gioventù primitiva ad uso della società occidentale, 2017, Giunti (1 edizione 1928)
Sesso e temperamento, 2021, Il Saggiatore (1 edizione 1935)
Maschio e femmina, 2016, Il Saggiatore (1 edizione 1949)
Lettere dal campo 1925-1975, 1979, Mondadori (1 edizione 1977)
America allo specchio. Lo sguardo di una antropologa, 2019, Il Saggiatore
Popoli e paesi. La scienza che insegna a comprendere l’uomo, 1962, Feltrinelli
L’inverno delle more, Mondadori 1977
Silvia Lelli (a cura di), Quando l’antropologo è donna, 2016, Edizioni Clichy
Bibliografia critica
Catherine Bateson, Con occhi di figlia: ritratto di Margaret Mead e Gregory Bateson, Feltrinelli, 1985.
Silvia Bellucci, Margaret Mead. La costruzione culturale dell’identità di genere, in Antrocom, vol. 5, n. 1, 2009, pp. 29-34.
Ugo Fabietti, Elementi di antropologia culturale, 2015, Mondadori
Voce pubblicata nel: 2025