Nel tredicesimo secolo Bettisia Gozzadini tenne lezioni di diritto all’università di Bologna, e fu probabilmente la prima donna a insegnare in un ateneo. Ma, dice la leggenda, per poter seguire gli studi di diritto (e con gran successo, talché i suoi maestri l’avevano definita «mostro eccezionale») aveva dovuto seguire i corsi vestita da uomo - il che ci pare strano perché un secolo prima, e certamente vestita da donna, al punto da attirare gli sguardi di Abelardo, seguiva i corsi parigini Eloisa. Ma si sa, Parigi è sempre Parigi.
Tuttavia di ben altro parla la leggenda: e dice che Bettisia era così bella che, per non turbare gli studenti che la seguivano in gran numero, doveva tenere le sue lezioni coperta da un velo. La cosa imbarazzante è che la stessa leggenda circola sulla seconda donna che ha tenuto corsi, sempre di diritto, a Bologna, e un secolo dopo: era Novella d’Andrea, figlia di Giovanni d’Andrea, professore di diritto canonico; educatasi alla scuola del padre, teneva lezione in sua assenza, di fronte a una folta assemblea di studenti. E anche lei coperta da un velo, oppure, secondo altre voci, dietro a una sorta di sipario.
Insomma, o era costume di entrambe il parlare velate, o le leggende si sono ingarbugliate, e non sapremo mai come sia andata davvero: per esempio se la docente si coprisse prudenzialmente per non distrarre i discenti, o se i discenti fossero una massa di forsennati, che al solo vederla apparire facevano un baccano d’inferno, e via con frizzi e lazzi da papiro goliardico.
Comunque siano andate le cose, il nascere stesso della leggenda ci dice che insegnare e parlare in pubblico, per una donna, non era esperienza di tutti i giorni, né la società del tempo avrebbe potuto lasciar passare l’evento sotto silenzio. Magari Bettisia (o Novella) non si sono coperte, ma non debbono aver avuto vita facile davanti ai propri allievi, neppure se (contro la leggenda) fossero state di modesta venustà.
Bettisia e Novella si nascondevano, né han lasciato opere scritte che le tramandassero alla posterità, e meno male che a ricordarle ci ha pensato la fantasia popolare. Ma quante altre donne sono incorse nella stessa sorte, obbligate a velare il proprio ingegno?
A ben vedere il costume e le cronache sono state ben più indulgenti con le poetesse e le mistiche, con le imperatrici e con le cortigiane, per cui da Frine e Aspasia a Teodora, da Christine de Pizan a Marie de France, da Caterina da Siena a Ildegarde di Bingen, antichità e medioevo non hanno taciuto sulle donne di potere e di sapere. Però, a parte le due donne di legge da cui siamo partiti, poco sappiamo di donne filosofe e donne matematiche. Come se avesse avuto ragione Kierkegaard a dire che l’uomo è capace di pensare l’infinito mentre la donna dà solo senso al finito.
A parte che dare senso al finito non mi pare attività da poco, l’apoftegma lascia pensare che, siccome non sa fare i bambini, l’uomo si consola coi paradossi di Zenone – come se l’infinito non avesse saputo fissare con occhio allucinato Ildegarde. Ma insomma, è sulla base di affermazioni del genere che si è diffusa l’idea che la storia (almeno sino al ventesimo secolo) ci abbia fatto conoscere poetesse, narratrici, sante e scienziate in varie discipline, ma non donne filosofe e donne matematiche. Con una sola eccezione, quella di Ipazia – ma se san Cirillo non l’avesse fatta ridurre a brandelli, forse non avremmo saputo neppure della sua scienza (come a dire che una donna filosofa non passa alla storia se non ha almeno un santo in paradiso).
È vero che le donne di pensiero hanno subito la stessa sorte delle donne pittrici. Pareva che le donne non fossero portate alla pittura, tranne le solite Rosalba Carriera o Artemisia Gentileschi. Ma per le donne pittrici qualche ragione c’è. Sino a che la pittura era affresco di chiese, montare su un’impalcatura con la gonna non era cosa decente, né era mestiere da donna dirigere una bottega con trenta apprendisti. Ma appena si è potuta fare pittura da cavalletto le donne pittrici sono spuntate fuori. Un poco come dire che gli ebrei sono stati grandi in tante arti ma non nella pittura, sino a che non si è fatto vivo Chagall: è vero che la loro cultura era eminentemente auditiva e non visiva, e che la divinità non doveva essere rappresentata per immagini, ma c’è una produzione visiva di indubbio interesse in molti manoscritti ebraici.
Il problema è che era difficile, nei secoli in cui le arti figurative erano nelle mani della chiesa, che un ebreo fosse incoraggiato a dipingere madonne e crocifissi, e sarebbe come stupirsi che nessun ebreo sia diventato papa.
Torniamo alle donne pensatrici. Eloisa, brillantissima studente di filosofia e teologia, non è andata in cattedra e ha dovuto accontentarsi di divenire badessa. Non che una badessa fosse all’epoca autorità da poco, prova ne siano Caterina da Siena o Ildegarda di Bingen, ma insomma neppure Eloisa era autorizzata a occuparsi di universali (solo di particolari, e per forza, il suo “mestiere” di donna era di dare senso al finito).
Ma davvero la storia non ci ha fatto conoscere donne filosofe? Nel 1690 tale Gilles Ménage, un latinista precettore di Madame de Sévigné e di Madame de Lafayette aveva pubblicato un Mulierum philosopharum historia. Altro che la sola Ipazia: anche se dedicato principalmente all’età classica, il libro di Ménage ci presentava una serie di figure appassionanti, come Diotima la socratica, Arete la cirenaica, Nicarete la megarica, Iparchia la cinica, Teodora la peripatetica (nel senso filosofico del termine), Leonzia l’epicurea, Temistoclea la pitagorica. Ma la lista non si fermava qui perché Ménage, sfogliando i testi antichi e le opere dei padri della chiesa, di donne filosofe ne aveva trovate citate ben sessantacinque, anche se aveva inteso l’idea di filosofia in senso abbastanza lato. Se si calcola che nella società greca la donna era confinata tra le mura domestiche, che i filosofi piuttosto che con fanciulle preferivano intrattenersi coi giovinetti, e che per godere di pubblica notorietà la donna doveva essere una cortigiana, si capisce lo sforzo che debbono avere fatto queste pensatrici per potersi affermare. D’altra parte, come cortigiana, per quanto di qualità, viene ancora ricordata Aspasia, dimenticando che era versata in retorica e filosofia, e che (teste Plutarco) Socrate la frequentava con interesse. Sono andato a sfogliare almeno tre enciclopedie filosofiche odierne e di questi nomi (tranne Ipazia) non ho trovato traccia, se si esclude naturalmente Diotima, che però deve la sua fama a Platone, altrimenti sarebbe stata dimenticata (o forse riscoperta solo nel nostro secolo da una agguerrita comunità femminista veronese). Più generosa delle enciclopedie filosofiche è Wikipedia, che mi cita sobriamente Nicarete di Megara, che secondo Diogene Laerzio avrebbe avuto una relazione adulterina col suo maestro Stilpone; insomma, messa in cattedra dall’amante. O l’amante o il padre, come accade ad Arete, divenuta celebre come figlia di Aristippo. D’altra parte Nicarete, per poter filosofare in libertà, aveva scelto la professione di etera o, come si direbbe oggi, di escort. Ed etera era Leonzia, che frequentava il giardino di Epicuro, e avrebbe dovuto essere ricordata un poco meglio perché pare (ma pare soltanto) che avesse osato attaccare il grande Teofrasto.
Ménage considera filosofa anche Temistoclea, che era sacerdotessa di Delfi, ma si dice avesse ispirato Pitagora. Anche lei nana sulle spalle di un gigante. Più indipendente mi pare Ipparchia di Maronea, su cui l’Antologia Palatina (VII, 413) riporta questo epigramma: «Io, Ipparchia, - non scelsi opere di donne dalle ampie vesti, - ma la dura vita dei cinici, - non ebbi scialli ornati di fibbie, - né alte calzature orientali, - né retine splendenti nei capelli, - ma una bisaccia col bastone, - compagna di viaggio e adatta alla mia vita, - e una coperta per giaciglio.» E, rimproverata di aver abbandonato i lavori dei telai, rispondeva di aver messo a frutto il tempo per la propria educazione, anziché sprecarlo nei telai. Forse, così mal messa, pareva brutta anche se non lo era, non ha dovuto coprirsi di un velo, e la storia l’ha lasciata in un canto – anche lei, poor cow.
Insomma, non è che non siano esistite donne che filosofassero (o che fossero versate in utroque iure). È che i filosofi e i giuristi hanno preferito dimenticarle, magari dopo essersi appropriati delle loro idee.