«Oggi ho passato una giornata proprio bella – il tempo era magnifico; verso le 11 sono andata nell’orto con Luisina a cogliere le viole, poi abbiamo fatto tanto chiasso sul prato con Vittorina Giorgio e Bista - Che buon umore c’è in campagna […] Sono rimasta lì del tempo godendo e rêvant - Che cosa bella il vedere il bleu del Cielo fra il verde degli ulivi!!!! Che tinte!!! Non si udivano altri rumori che il canto degli uccelli, tutto spirava dolcezza e soavità! J’ai senti mon coeur hereux de battre e réconnaissant d’exister!...»
A scrivere queste righe è Matilde, ultima dei 9 figli di Alessandro Manzoni ed Enrichetta Blondel. Orfana di madre a soli 3 anni, viene allevata dalla nonna e dalla sorella maggiore, Giulia, e in seguito mandata a studiare in convento. Annota in un suo tipico telegrafico appunto, dopo aver ricordato le date di nascita e di battesimo:
«[…] Il 9 maggio 1838 sono entrata in Convento. Il 29 Gennajo 1839 sono stata cresimata col nome d’Enrichetta. L’8 Dicembre 1841 ho fatto la prima Comunione […] Il 29 Luglio 1846 sono sortita dal Convento. Il 6 Luglio 1847 sono arrivata in Toscana.»
E in Toscana, fra Lucca, Pisa e la Versilia trascorrerà tutta la sua breve esistenza, troncata prematuramente, nel marzo 1856, a causa della tubercolosi, dopo anni di malattia e sofferenze. La sua scarna biografia sarebbe rimasta tale, per fama riflessa dell’illustre padre, se nel 1992 non fosse uscito, a cura di Cesare Garboli, un volumetto che conteneva il suo Journal, scritto, come spesso capitava in quegli anni, in francese e in italiano.
«Sentire è una cosa, esprimere è bene diverso… Quale lingua saprei mai trovare che possa rendere i miei sentimenti nella vivacità dei loro colori, nel fascino delle loro speranze, nella cupezza della loro malinconia?» (1851)
L’opera attira subito l’attenzione e la curiosità di critica e di pubblico per i risvolti filologici che apre, ma soprattutto per la freschezza di una scrittura che descrive, conforta e intrattiene una esistenza, come uno strumento musicale che possa far risuonare una complessa dialettica interiore
«Trovo questo mio diario così monotono e ne sono così stanca» (1851)
Risultano molto originali anche le pagine in cui Matilde racconta l’incontro con le poesie di Leopardi, donatele da Giuseppe Turrini, futuro professore di sanscrito a Bologna. Dalle annotazioni emergono riflessioni imprevedibili: «Leggendo Leopardi devo spesso chiudere il libro; questa lettura mi strema e non posso farla che a tratti. Resto come schiacciata sotto la bellezza e la tristezza dei suoi versi .[...] Leggendo Leopardi provo una sensazione che mi era sino a ora sconosciuta […]è come se una mano di ferro mi stringesse il cuore e mi mozzasse il respiro! Sventurato Leopardi».
Matilde è una lettrice attenta di autori contemporanei, come Silvio Pellico, di cui però dissacra in parte il mito, criticando aspramente per esempio le sue tragedie.
Garboli si interroga, nella sua Prefazione, se Matilde, in certi momenti della sua vita, sia stata un po’ felice, ma tutto il Journal, a parte qualche rara cometa, gronda tristezza, o peggio disperazione: «Sono nove mesi che non passeggio più».
Matilde era stata accolta dalla sorella e dall’amatissimo cognato perché cagionevole di salute, nella speranza che il cambiamento d’aria le giovasse. Ma era necessario, forse, anche un altro tipo di cambiamento poiché l’atmosfera, in casa Manzoni, a Milano, non era sempre respirabile per Matilde, che avrebbe dovuto convivere con la seconda moglie di Manzoni, Teresa Stampa, lontana dalle poche sorelle e fratelli rimasti. Nonostante il soggiorno in Toscana lenisca le sue tribolazioni, la lontananza dal padre le arreca spesso sconforto. Ma più che di lontananza bisognerebbe parlare di totale freddezza e di completo disinteresse mostrato da questo illustre padre per la figlia. «Scusa caro Papà, temo di far male a lamentarmi così, temo di seccarti, ma non di parerti esigente[…]. Sai che sono dei mesi che non mi scrivi e non t’ immagini che cos’è per me una riga tua? Tutte le mattine aspetto l’ora della posta con smania; e mi dico sempre, oggi certamente avrò una lettera, e invece tutti i giorni non c’è nulla» (ottobre 1855). Matilde spesso scrive al padre anche per chiedergli i soldi necessari per le malattie che l’affliggono, ma ancor più lo supplica di scriverle «Ti prego di scrivermi una riga, a te non ti può costare tanto tanto, e se tu sapessi che cosa è per me il ricevere una tua letterina! Per questa volta passami anche questo capricci, te ne prego, e rallegra la mia convalescenza» e soprattutto di andarla a trovare. È un climax inarrestabile quello che si crea via via che la malattia incalza. Manzoni promette soldi, ne manda pochi, insufficienti, promette visite, ma non verrà mai a trovare la figlia. Matilde morirà a soli 26 anni fra le braccia della sorella Vittoria e del suocero di lei, Gaetano Giorgini, che Matilde chiamava appunto “babbo”. «[…]Ho avuto gran momenti di malinconia, te lo confesso, m’ero proprio scoraggiata, […] Pensavo tante volte: quando starò peggio, scriverò a papà che per carità venga, non posso proprio morire senza rivederlo e senza che mi conforti colle sue parole e la sua benedizione!...Vero, caro papà che se dovessi star male tu verresti?» (febbraio 1855)