Inviati si nasce e, qualche volta, si muore. In una terra lontana, come è accaduto nel novembre 2001 a Maria Grazia Cutuli, inviata del «Corriere della Sera» in Afghanistan.
E di inferni Maria Grazia ne aveva visti altri: Cambogia, 1992; Sarajevo, 1995; Albania, 1997; Iraq, 1998; Timor Est, 1999. Non una fredda cronista di guerre e genocidi, ma una attenta osservatrice delle società e dei costumi. Anche della condizione femminile. Le sue corrispondenze da Kabul, dopo la caduta del regime talebano, restituiscono uno spaccato di vita quotidiana che si sofferma con particolare sensibilità sulle donne afgane: «Nascoste, invisibili, assenti: non si vedono donne a Jalalabad. La liberazione della città afghana dai talebani ha portato nelle strade migliaia di miliziani armati, bande ubriache di vittoria, pronte a contendersi il controllo del territorio sino all'ultimo vicolo o all'ultima casa. Non ci sono donne tra chi fa la guerra, gestisce il potere, decide il futuro. In un'intera mattinata, appaiono tra le botteghe del suk solamente tre sagome avvolte dal burqa, dal passo silenzioso e discreto, coperte come sempre dietro la cortina di un poliestere».
Maria Grazia Cutuli credeva nel giornalismo, quello più difficile, quello che racconta le storie senza filtri, onesto e indipendente. E se non poteva partire per conto del giornale, usava le sue ferie per andare a cercare storie che sapeva sarebbe riuscita a far pubblicare.
Nata a Catania nel 1962, Maria Grazia Cutuli si laurea in Filosofia con una tesi su Michel Foucault, poi le prime collaborazioni giornalistiche, prima al quotidiano «La Sicilia» e poi all'emittente televisiva Telecolor. Alla fine degli anni '80 il salto dalla Sicilia alla Lombardia, dall'emittente locale alla stampa di quella che all'epoca era la “Milano da bere”: collabora con i mensili «Marie Claire» e «Centocose», poi con il settimanale «Epoca» fino alla chiusura della storica testata per la quale scrive reportage dalla Bosnia al Congo, dalla Sierra Leone alla Cambogia. Si trasferisce a New York, dove frequenta un corso di peacekeeping delle Nazioni Unite, a seguito del quale partirà come volontaria per il Ruanda con l'Alto Commissariato per i diritti umani.
Nel 1997 il primo contratto con il «Corriere della Sera» alla redazione Esteri, poi due anni più tardi l'assunzione definitiva. Il giorno prima della sua morte il quotidiano di via Solferino pubblica un suo reportage su un deposito di gas nervino in una base abbandonata dai terroristi di Al Qaeda.
Il 19 novembre 2001 Maria Grazia Cutuli, l’inviato di «El Mundo» Julio Fuentes, il reporter australiano Harry Burton e l'operatore afghano Azizullah Haidari della Reuters vengono uccisi in un agguato dei talebani lungo la strada che collega Jalabad a Kabul.
L'auto sulla quale viaggiavano viene bloccata da un gruppo di uomini armati che prima fanno scendere i giornalisti dalla loro auto e poi esplodono contro di loro raffiche di kalashnikov.
Non un agguato a scopo di rapina come qualche giornale volle far credere all'inizio e come emerse nelle prime inchieste, ma un omicidio politico come stabilito dalla sentenza della Corte Suprema di Cassazione nel 2004: i talebani uccisero per dimostrare che erano ancora in grado di controllare il territorio.
Un macabro messaggio contro la stampa internazionale.
Nell'ottobre del 2007 è stata eseguita, a Kabul, la condanna a morte di uno degli assassini dei quattro giornalisti.
Nel nome di Maria Grazia Cutuli sono fiorite tante iniziative legate al giornalismo e alla solidarietà: la Fondazione Cutuli Onlus, con sede a Catania e presieduta dal fratello Mario; numerosi premi tra i quali il Premio internazionale di giornalismo organizzato dalla Fondazione in collaborazione con il Comune di Santa Venerina e le università siciliane di Palermo, Catania, Messina, Enna, quello istituito dalla Camera dei Deputati per ricordare il suo impegno professionale e civile e quello di Ilaria Alpi (la giornalista di Rai 3 uccisa a Mogadiscio nel 1994); le scuole a lei intitolate in Afghanistan, quella di Maimanà, inaugurata nel 2004, e quella di Herat nell'agosto 2010.