Protagonista di una contrastata storia d’amore, Livia Vernazza fu la moglie del figlio naturale del granduca di Toscana, don Giovanni de’ Medici. Alla morte del consorte la donna, da sempre invisa alla famiglia de’ Medici, fu separata dal figlio, spogliata dei suoi averi e imprigionata fino ai suoi ultimi giorni di vita.
Figlia del materassaio Bernardo Vernazza, Livia nacque a Genova il 26 gennaio 1590 e sposò all’età di quindici anni il quarantenne Battista Granara, materassaio anch’egli. Sono contrastanti le notizie riguardo a quanto avvenne successivamente alle nozze, burrascose sin dall’inizio. L’ostilità dei Medici alla relazione della donna con Giovanni ha contribuito ad alimentare una storiografia interamente incentrata sulla reputazione torbida di lei ed è ormai impossibile stabilire con certezza se la sua fuga dal matrimonio e da Genova, a soli 16 anni, sia scaturita dall’esigenza di sfuggire ad un marito violento o dal desiderio di rifarsi una vita con un amante.
Quel che è certo è che la giovane, forse dopo aver dato alla luce un figlio, lasciò la casa del Granara e si rifugiò prima a Massa, poi a Lucca e infine, nel 1607, a Firenze, dove si mantenne prostituendosi. Sappiamo infatti che fu iscritta nel Libro dell’Honestà, ovvero schedata come donna di malaffare, fino al 1609, anno in cui intrecciò una relazione con Giovanni de’ Medici, figlio naturale di Cosimo I e della di lui amante Eleonora degli Albizi, uomo dall’ingegno eclettico, grande mecenate, abile condottiero ed architetto visionario (a lui si deve – tra l’altro - il disegno della maestosa Cappella dei Principi in San Lorenzo a Firenze).
Nel 1618 i problemi di salute accusati da Giovanni lo indussero a legittimare la posizione di Livia, incinta, sposandola. La coppia inviò pertanto alla curia episcopale di Genova un’istanza di annullamento del precedente vincolo matrimoniale della Vernazza, sostenendo che la giovane fosse stata costretta alle nozze a causa delle minacce e delle pressioni subite dalla sua famiglia di origine.
La determinazione della coppia si scontrò tuttavia con la ferrea opposizione del granduca Cosimo II che, pur di evitare la disonorevole unione di Giovanni con una donna di basso lignaggio e dal passato a dir poco promiscuo, appoggiò con tutti i mezzi Battista Granara. Naturalmente le autentiche motivazioni dell’avversione del granduca alle nozze erano soprattutto di natura patrimoniale: se infatti la coppia avesse generato un figlio all’interno del matrimonio, questi sarebbe divenuto di fatto un possibile erede al trono di Toscana e avrebbe potuto avanzare pretese sui beni della dinastia. L’annullamento delle prime nozze della Vernazza era pertanto un affare di stato.
Cosimo II fece in modo che il Granara ricorresse in tribunale e che presentasse una petizione al Papa per ottenere che la moglie venisse rinchiusa in un monastero mentre il suo caso veniva discusso. Fortunatamente per i due amanti, tuttavia, non solo la richiesta del Granara venne respinta, ma la curia di Genova concesse infine anche l’annullamento del matrimonio di Livia il 12 giugno 1619, perché contratto sotto forzatura.
Le nozze tra don Giovanni e Livia Vernazza si celebrarono pochi giorni dopo la sentenza di annullamento a Venezia, città in cui il Medici aveva trovato ingaggio come condottiero. Nello stesso anno la coppia ebbe un figlio, Gianfrancesco Maria.
Con la morte prematura di Giovanni de’ Medici, il 19 luglio del 1621, ebbe inizio il lungo calvario di Livia. Il giorno successivo alla scomparsa del Medici, l’ambasciatore toscano a Venezia, Niccolò Sacchetti, già presente al momento del trapasso, fece trasferire in casa propria il piccolo Gianfrancesco e il 23 luglio la stessa sorte toccò alla madre. Mentre il bambino veniva inviato in fretta e furia a Firenze, Livia, in avanzato stato di gravidanza, veniva invece trattenuta a Venezia, dove dava alla luce il 16 novembre una femminuccia, Giovanna Maria Maddalena, vissuta soltanto venti giorni.
Nel 1621 era succeduto al trono del granducato di Toscana l’undicenne Ferdinando II. In attesa della sua maggiore età furono nominate reggenti Cristina di Lorena e Maria Maddalena d’Austria, coadiuvate da un consiglio di reggenza. Uno dei primi atti delle granduchesse fu quello di neutralizzare la potenziale minaccia rappresentata da Livia e da suo figlio. Grazie alla subdola opera di persuasione del fedele Sacchetti, Livia fu indotta a credere che, se fosse rimasta a Venezia, avrebbe rischiato di cadere in balia dell’Inquisizione a causa degli esperimenti di alchimia del marito, di cui avrebbe potuto essere ritenuta complice.
Mentre, temendo un processo per stregoneria, Livia si rifugiava a Firenze, l’ambasciatore granducale si occupava invece di far inventariare i suoi beni e di sigillare tutte le sue proprietà a Venezia, tra cui la dimora che aveva condiviso con il Giovanni a Murano.
Giunta nella capitale del Granducato, la Vernazza fu relegata dapprima a Montughi, unica proprietà rimastale poi, “per i mali modi da lei usati in Montughi” fu detenuta dal 1623 al 1639 nelle fortezze di Belvedere e nel convento di Sant’Orsola in Firenze.
Le due reggenti, che non erano delle Medici di nascita, si accanirono sulla vedova ergendosi a paladine delle morale pubblica e degli interessi del casato. Spirito indomito e combattivo, la Vernazza riuscì tuttavia a preservare almeno i suoi gioielli dall’avidità delle sue persecutrici.
Prima di essere attirata con l’inganno a Firenze, avendo forse intuito quanto stava per accadere, fece infatti trasferire i gioielli ricevuti in dono dal marito, tutti di gran valore, in un convento di Murano. Le granduchesse fecero di tutto per ottenerli negli anni seguenti, invano. L’infelice si trovò comunque costretta a spendere quello che le restava delle proprie ricchezze per pagare avvocati disonesti e carcerieri per alleviare le condizioni della sua prigionia. A rendere ancora più penosa la sua situazione contribuirono i pessimi rapporti con il figlio. Gianfrancesco, affidato sin dal suo arrivo a Firenze alla tutela di Cosimo Baroncelli dal Magistrato dei pupilli, giunse ad odiare la madre perché influenzato negativamente dalla campagna diffamatoria medicea.
Nel testamento rogato il 19 novembre del 1652 Livia dichiarerà di diseredarlo per essere stata da lui “malissimo trattata e ancora ingiuriata e insidiata nella vita chiamandomi pubblicamente […] con il nome di strega e fattucchiera”. Alla morte, nel 1655, ella lasciò i pochi averi rimasti ai padri della chiesa di S. Michele Visdomini di Firenze.
Era però destino che nemmeno le sue spoglie riposassero in pace: nel corso dell’alluvione del 1966 la sua tomba fu spazzata via dalle acque dell’Arno ed i suoi resti giacciono oggi in un ossario comune.
Di lei resta solo il carteggio epistolare intercorso con il consorte, custodito presso l’Archivio di Stato di Firenze, composto da 84 lettere che spaziano dal 30 agosto del 1612 al 16 settembre 1622 che lo studioso Brandon Doodley ha definito “una delle testimonianze più interessanti della storia dell’amore e delle emozioni nel Rinascimento”.
Le epistole gettano luce sull’universo privato di Livia e di Giovanni, consentendoci di cogliere l’umanità dietro la maschera del Medici come personaggio pubblico e la continuità che attraversa la storia delle emozioni a secoli di distanza.
Il suo stile, pur se aristocratico e formale, non si traduce mai in un vuoto esercizio retorico e dalle sue parole trapela l’adorazione nutrita per Livia ed il rispetto per i suoi giudizi. La Vernazza scrive invece al di fuori di ogni genere precostituito, come se avesse più familiarità con la lingua parlata, che con la formalità della lingua scritta. Dalla lettura traspaiono l’affetto sincero, l’intensa passione e il comune interesse dei coniugi per tutti gli aspetti della vita quotidiana e familiare, dal pagamento dei servitori ai preparativi per il battesimo del figlio.
Il ritratto di Livia che emerge dal carteggio è quello di una donna innamorata, di una madre premurosa e di una padrona di casa oculata; tuttavia non fu questa l’immagine che ne ebbero i detrattori. Cosimo Baroncelli, il fedele segretario di Giovanni, ad esempio, considerava Livia «insolentissima et superbissima al maggior segno» e lamentava che Giovanni ne fosse «tanto innamorato, e perduto, che per lei averebbe fatto qualsivoglia cosa». Il granduca Cosimo II, nipote di Giovanni, si preoccupava delle infrazioni al protocollo se Giovanni avesse portato «quella sua donna» a qualche importante cerimonia ufficiale.
Il Cardinal Carlo de’ Medici e la sorella di questi, Caterina, duchessa di Mantova, le furono apertamente ostili. Né bisogna dimenticare, d’altronde, che la mescolanza tra le classi sociali ed il divorzio nell’Italia della Controriforma erano guardate con profondo sospetto, cui si aggiungeva il malcelato timore che Livia avesse fatto ricorso ad arti occulte o a filtri magici per assicurarsi l’amore imperituro del marito.
Dopo la morte di Giovanni nel 1621 i Medici iniziarono un procedimento legale inteso a diseredare il figlio della coppia, il piccolo Gianfrancesco Maria. Questi sarebbe stato dichiarato illegittimo se i suoi parenti fossero riusciti a ribaltare la sentenza di annullamento del primo matrimonio di Livia, rendendo così la donna non solo adultera, ma anche bigama. La potente dinastia fiorentina raggiunse facilmente il proprio intento: non soltanto Gianfrancesco Maria fu dichiarato illegittimo, ma fu anche privato di tutti i cospicui beni paterni, che vennero elargiti a diversi membri prominenti della famiglia. Egli venne tuttavia allevato come un Medici e gli fu garantito un vitalizio annuo.
L’infelice sorte di Livia la accomuna ad altre amanti o mogli morganatiche sgradite alla dinastia medicea, quali Eleonora degli Albizi, Camilla Martelli o Bianca Cappello, che pagarono spesso a caro prezzo le loro relazioni con i granduchi.
La Vernazza è oggi oggetto di rivalutazione storica ed affianca una vasta schiera di personaggi femminili vissuti fra il XVI ed il XVII secolo in Italia, vittime di una campagna denigratoria basata su motivazioni politiche e su pregiudizi di genere. Molte protagoniste del Rinascimento italiano furono dipinte come ammaliatrici licenziose o addirittura come streghe da un certo filone dell’Ottocento letterario, ma la realtà storica testimonia piuttosto la difficoltà del rapporto fra donne e potere tra Cinquecento e Seicento, epoca in cui ogni tentativo femminile di autodeterminazione al di fuori dalle restrizioni imposte sia dalla religione che dalle convenzioni sociali poteva avere un costo molto alto e mettere a rischio, talvolta, la vita stessa.