"In questa religiosa stanza, dunque, io venni, o per dire meglio, fui condotta l’anno 1541, […] nell’entrarvi non avevo ancora finiti due anni"
con queste parole Fulvia Caracciolo racconta il suo ingresso nel convento di San Gregorio Armeno in Napoli, monastero benedettino destinato alle nobildonne napoletane dei Seggi di Capuana e Nido, nel suo interessante manoscritto intitolato Breve compendio della fundatione del monistero di Santo Gregorio Armeno detto Santo Ligoro di Napoli con lo discorso dell’antica vita, costumi e regola che le moniche di quello osservavano et d’altri fatti degni di memoria soccessi in tempi dell’autrice.
Fulvia Caracciolo traccia la singolare cronaca della ribellione avvenuta all’interno dei monasteri femminili napoletani in seguito alla Riforma Tridentina. "Nell’anno 1565 fu serrato il Consiglio Tridentino et, fra le altre cose che vi furono conchiuse, fu conchiuso et ordinato espressamente la riforma di tutto il clero et insieme di noi altre moniche". I monasteri femminili erano tutt’altro che luoghi di preghiera e meditazione. Una relazione di ambiente curiale metteva in evidenza che le monache erano normalmente intente a "fare cose di zucchero, saponetti et altre cose di cocina a diverse persone, oltre la moltitudine di frati et di preti, dalli quali sotto varie spetie di pratiche e di divotione erano frequentate et visitate spesso, in modo che quando detti monasterij si vedevano, non parevano monasterij chiusi di donne, ma più presto publici mercati per la multitudine di gente che con esse haveva da negoziare, da che può ogn’uno persuadersi et tinere per certo che ciascuna monaca per accrescere il suo peculio non lasciava fare qualsivoglia sorte di illecito, con far sin all’usura".
Le monache di origini nobiliari, costrette dalla famiglia alla scelta conventuale, conducevano una vita fastosa. La riforma spezzò definitivamente queste antiche abitudini "et che le molte robbe da noi acquistate si havevano da lasciare senza che potessimo essere padrone di un carlino, le case dai nostre antecessore edificate con tanto nostro commodo si havevano da diroccare, ne accresceva tanto la pena, che non si poteva fare altro che piangere amaramente, poiché niuna si racordava, né haveva inteso dire che questo nostro monistero fosse stato di altro modo et ai nostri tempi solo venivano tante mutazioni". Fulvia Caracciolo era nata a Napoli nel 1539 da Giulio Cesare Caracciolo, figlio di Marino dei Caraccioli del Leone della famiglia dei Cappuccini, e Ippolita Caracciola, e dall’età di due anni fino alla morte, presumibilmente avvenuta intorno agli inizi del 1600, ha trascorso tutta la sua vita nel monastero di San Gregorio Armeno. Come tutte le monache della casata dei Caracciolo avrà ricoperto di volta in volta ruoli chiave nell’organizzazione del monastero dalla "maestra", responsabile dell’educazione delle educande, delle novizie e delle converse alla "corista", che sovrintendeva al coro e a tutte le funzioni religiose; dalla "speziaria", per la confezione dei medicamenti e rimedi all’"infermiera" alla "procuratrice" per la cura di tutti gli affari amministrativi e burocratici. Dal suo racconto traspare la sua personalità e intelligenza vivace, attenta, curiosa nonché la capacità di capire l’evoluzione dei tempi e le novità. La cosa che rende unico, singolare e anomalo il resoconto di Fulvia è chiaramente il punto di vista, interno al mondo conventuale femminile. La descrizione che ne risulta è particolarmente vivida, le monache non avevano mai conosciuto la stretta clausura, per cui quando alla fine l’aut–aut loro imposto, abbracciare la nuova regola o uscire dal convento, non sarà più negoziabile, alcune decideranno di abbandonare il monastero. La cifra più notevole del resoconto è la forte capacità di mettere insieme la declinazione degli eventi storici e la descrizione di momenti salienti della vita del monastero: l’elezione della badessa, le esequie e la rielezione della stessa, il rito della professione dei voti, le modalità di vita delle monache, le feste in onore dei santi, i miracoli, la venerazione per le reliquie, il tutto filtrato dal taglio, anche se non sempre netto, del prima e del dopo riforma.
"Intorno poi al vestire che noi usavamo, dirò che andavamo vestite di bianco, però le tuniche a modo di un sacco, a punto come sono quelli che portano hoggi dì le donne vidue, ma di panni fini et bianchissimi, in testa portavamo una legatura greca ornata con molta modestia, leggevamo ai libri longobardi e perciò la maggior parte de la vita spendevamo nei divini uffici per esserno in quei tempi assai lunghi e da noi con molta sollennità celebrati".
Ma più ancora sorprendente è la maestria nel riferirci i sentimenti, gli affanni e le ansie che attraversavano gli animi delle monache: dalla incredulità, alla ambiguità:
"rimasimo tutte confuse l’una si doleva con l’altra, senza sapere cose ne fusse avvenuta",
alla paura:
"ma stavamo a punto, come coloro che stanno nelle strette carceri, aspettando in hora in hora che sia fatta la causa per terminare la vita".
Il documento, inoltre, diventa eccezionale, dati i tempi, perché la narratrice è una donna, protagonista in prima persona di esperienze e fatti straordinari, che inconsapevolmente lascia leggere senza alcuna cortina il suo vissuto, le sue trepidazioni, le sue sensazioni, le sue emozioni ma anche la mentalità, la cultura, la visione delle donne che vivevano all’epoca l’esperienza monastica. La Caracciolo riscatta e mette in evidenza un ruolo tutt’altro che tipicamente femminile per l’epoca. Entrando in convento spesso le donne amministravano una parte di patrimonio familiare loro assegnato, che potevano gestire in maniera autonoma a differenza delle donne sposate, avevano ampia libertà ed indipendenza per organizzare feste e banchetti, regalie a confessori, ristrutturare e ampliare la propria cella, acquistare oggetti di valore per sé o per la chiesa, investire in titoli finanziari; come badesse avevano un ruolo politico nei rapporti con autorità ecclesiastiche e cittadine; come amministratrici avevano relazioni con professionisti e fornitori; come curatrici e “responsabili di cantiere” delle opere di fabbrica e di abbellimento delle stesse commissionavano opere spesso anche ad artisti illustri; non trascurerei il ruolo di “madre”, di cui si appropriavano allevando le nipoti, che entravano in convento in tenerissima età, occupandosi della loro educazione. La Cronaca ha avuto una fama immediata. Citata in quasi tutte le guide sacre e non della città di Napoli, da quelle seicentesche a quelle di fine Ottocento, oggi è richiamata in tutte le bibliografie di studi del settore. Ampi brani del testo, inoltre, sono stati riportati nel romanzo autobiografico di Enrichetta Caracciolo, Misteri del chiostro napoletano. Memorie, pubblicato nel 1864, che adopera lo scritto della sua antenata come testimonianza di usi e costumi, che ancora permanevano nel convento quando nel 1841 fu costretta dalla madre alla monacazione.