Nel 2001 le venne assegnato il Premio Gerusalemme. Nel suo discorso d’accettazione Susan Sontag disse fra l’altro:
«Che cosa intendiamo con la parola pace? Intendiamo forse assenza di conflitto? Oblio? Perdono? O forse una grande stanchezza, un esaurimento, il prosciugamento di ogni rancore? A me pare che per la maggior parte della gente pace significhi vittoria. La vittoria del proprio schieramento».
Sono parole sofferte, attualissime, prive di ogni retorica.
Susan Sontag è stata una scrittrice, non forse una grande scrittrice, ma una intellettuale a tutto campo che ha impegnato la sua personalità in battaglie sociali, politiche, umane. Ha scritto saggi su temi non comuni negli anni in cui ne scriveva, spaziando con grande curiosità e intelligenza in diversi campi: dalla letteratura pornografica alle droghe, al cinema, alla fotografia, all’arte moderna, all’estetica omosessuale, al significato delle malattie vissute e interpretate nelle società di tutti i tempi.
Americana, ebrea, omosessuale, ha sviluppato certo delle sensibilità particolari.
Brucia le tappe: la sua vita adulta inizia a diciassette anni con un matrimonio frettoloso; a diciotto si laurea in filosofia e lettere, a diciannove ha un figlio. Studia a Harvard, Oxford e a Parigi dove le si rivela la sua omosessualità.
Alla fine degli anni Cinquanta, tornata a New York, divorzia e comincia a scrivere incontrando in un bravo agente letterario la persona che la farà conoscere a livello internazionale e diventare un riferimento statunitense per l’intellighenzia europea, una creatrice di opinioni.
Ha collaborazioni con giornali importanti: «Partisan Review», «New Yorker». Prende posizione contro le guerre in Bosnia, in Iraq e in Vietnam pubblicando le fotografie di guerra in un libro Davanti al dolore degli altri. Anche dopo l’attentato alle Torri gemelle sostiene che è conseguenza delle alleanze americane e che i terroristi non possono essere collocati tra i vigliacchi. Giudizi che deve rivedere per la forte reazione dell’opinione pubblica.
Si impegna per la parità delle donne e i diritti dei neri.
Viene premiata dalla Francia con l’Ordine delle Arti e delle lettere nel 1999, dalla Spagna con il Premio Principe delle Asturie nel 2003, con il National Book nel 2000 per il romanzo In America, storia che ce la fa sentire scrittrice molto vicina all’Europa.
E qui vorrei chiudere la breve biografia di Susan Sontag e concentrarmi sulla parola dolore, che, secondo me, ha avuto un grandissimo impatto nella sua vita.
La morte del padre quando aveva cinque anni, l’alcolismo della madre (risposatasi con un uomo dal quale Susan prenderà il cognome Sontag), la fuga da casa a quindici anni che la porta a vivere in fretta nuove esperienze come fosse inseguita da qualcosa a cui dover sfuggire.
Quando a Gerusalemme fa le considerazioni sulla parola pace, si avverte la fatica di riflettere su un concetto che dovrebbe universalmente unire gli uomini.
Ed è ancora il dolore che le fa scrivere quei saggi, tra i suoi più interessanti e struggenti, Malattia come metafora e poi l’Aids e le sue metafore. Li scrive quando sa di avere il cancro e la riflessione sulla malattia appare una esigenza. Non serve piangere ma serve ragionare e capire perché certi mali sono utili al potere e alla società per rappresentare il Male.
La tubercolosi, la sifilide, il colera, la lebbra, il cancro, l’Aids: in ogni epoca se n’è utilizzata una per diffondere panico e paura, particolarmente se si poteva attribuire la malattia a comportamenti inaccettabili e scorretti secondo una certa morale corrente.
Le riflessioni di Susan Sontag muovono da una esigenza conoscitiva, una ricerca che è anche un modo di guardare il Male per conoscerlo e affrontarlo quasi fosse l’unica maniera per dargli una dimensione che si può anche contrastare e combattere.
Il dolore emerge da alcuni passaggi dei suoi diari. Il dolore per l’amore che vive, la meditazione sulla trasformazione dei sentimenti, dei rapporti.
«Il mio desiderio di scrivere è connesso alla mia omosessualità. Ho bisogno di quell’ identità come di un’arma, da contrapporre all’arma che la società usa contro di me. Ciò non giustifica la mia omosessualità. Ma mi accorderebbe, lo sento, una certa licenza. Solo adesso mi sto rendendo conto di quanto mi sento in colpa d’essere omosessuale. Con H. ero convinta che la cosa non mi turbasse, ma mentivo a me stessa. Essere omosessuale mi fa sentire più vulnerabile. » (24 dicembre 1959).
Non è forse dolore il sentirsi in colpa e andare in cerca della propria identità per sostenere la lotta che la vede impegnata nella vita? E quando parla di arma, non è forse dolore?
Il viso massiccio, i capelli che incombono sul volto togliendole luminosità e lo sguardo diretto che non cerca di piacere: è Susan Sontag con la sua capacità di affrontare l’esistenza, di opporsi alle convenzioni, di guardare all’amore e agli esseri umani con pietas, ragione e forza.
Susan Sontag, In America, Milano, Mondadori Editore 2000
Susan Sontag, Sulla fotografia, Torino, Einaudi 1977
Susan Sontag, Malattia come metafora, Milano, Mondadori Editore 2002
Susan Sontag, L'Aids e le sue metafore, Torino, Einaudi
Il sito della fondazione Susan Sontag
Referenze iconografiche: Susan Sontag nel 1966, quarta di copertina del suo libro Against Interpretation. Foto di Peter Hujar. Immagine in pubblico dominio.
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023