Nell’autunno del 1546 Alonso Basurdo, governatore spagnolo della provincia di Basilicata, raggiunse a cavallo la terra di Bollita per indagare sull’assassinio di Diego Sandoval de Castro, castellano di Cosenza. Nella relazione inviata al Vicerè Pietro di Toledo, che dispiegò invano un’armata di soldati e inquisitori per stanare i colpevoli, Basurdo riferisce che Antonia Caracciolo, consorte della vittima, querelò come assassini il barone di Favale e i suoi fratelli: «ad causa che tene suspicione che questi lo havessero amazato o facto amazare, ché se diceva che dicto don Diego havea festeggiato la sorella del dicto barone et fratelli». La prova del disonore furono «certe lettere et soneti che ‘l dicto don Diego li mandava» e che la sorella dei signori di Favale pareva gradire e ricambiare. Isabella Morra non seppe mai del tragico destino di don Diego perché, non molto prima, circa venticinquenne, era stata brutalmente uccisa, insieme al maestro di lettere della famiglia, reo d’aver fatto da latore, dai suoi fratelli Cesare, Fabio e Decio. Il fratricidio fu consumato nel castello di Favale, odierna Valsinni in Basilicata, dove si continua a rievocare la tragedia d’Isabella con le manifestazioni organizzate dal Parco Letterario a lei dedicato. Fra le carte di famiglia che, stando alla ricostruzione storica di Benedetto Croce, furono requisite dai magistrati nel corso delle indagini sugli omicidi, si rinvennero tredici componimenti poetici (dieci sonetti e tre canzoni) scritti da Isabella. Nel baule degli ispettori la poesia della Morra varcò i confini dell’oblio e iniziò a diffondersi nei salotti di Napoli, finché nel 1552, otto sonetti e una canzone, furono pubblicati da Ludovico Dolce nelle Rime di diversi illustri signori napoletani stampate dal veneziano Giolito.
Benedetto Croce, recatosi in visita al paese lucano, spinto dall’interesse per la storia e la figura della poetessa, descrive l’aspetto chiuso e romito dei luoghi: «Il piccolo abitato è aggrappato e come conficcato nelle falde del ripido colle, che il castello sovrasta: il castello, anch’esso scosceso per tre lati e inaccessibile […] Dal lato verso borea, che è quello dell’ingresso, si vede dai suoi spaldi svolgersi a valle in lungo nastro il Sinni, che ha qui il suo corso più stretto, e qui si gonfia torbido e impetuoso, e il suo mormorio accompagna l’unica vista dei monti tra i quali è rinserrato, tutti nereggianti di elci e di querce. Quella vista aveva davanti agli occhi immutabile, quel mormorio udiva incessante la giovane Isabella […]». Fu proprio l’esperienza autentica e sofferta dell’isolamento, in una remota e selvaggia terra del regno napoletano, a conferire un carattere espressivo del tutto peculiare ai componimenti della poetessa lucana sottraendoli all’ambito del mero esercizio letterario. Per tale corrispondenza, fra condizione esistenziale e temperamento poetico, le rime di Isabella Morra, seppur ligie ai canoni del petrarchismo, si distinguono dalla lirica più sensibile all’eleganza formale delle altre poetesse del Cinquecento. Il tema amoroso, dominante nella poesia femminile del tempo, si arrende all’urgenza dello sfogo interiore quale lamento contro una Fortuna avversa che costringe Isabella alla solitudine «fra questi aspri costumi di gente irrazional, priva d’ingegno». La «Valle inferna», le «vili e orride contrate», i«ruinati sassi», le «orride ruine», il «Torbido Siri», le «selve incolte», il «denigrato sito», le «solitarie grotte», diffondono l’eco del suo lamento che, in quanto genuino, travalica gli ambiti scolastici della retorica, e del topos letterario della Natura quale metafora di sofferenza, per farsi testimonianza pregnante di vita vissuta. Più autentiche e intense risultano perciò le rime dei sonetti perché la loro brevità, rispetto alla canzone, favorisce il tenore emotivo. Negli ultimi componimenti, il bisogno di dare un senso al dolore, declina all’etica cristiana le sue rime e Cristo e la Vergine si sostituiscono, nel disperato desiderio di rifugio, alla Fortuna e addolciscono l’ostilità del paesaggio.
L’isolamento d’Isabella era acuito dall’abbandono del padre. Giovan Michele Morra, barone di Favale, nel 1528 era fuggito con il secondo figlio Scipione, senza troppa nostalgia di patria, in Francia per aver mantenuto comportamento antispagnolo durante l’assedio di Napoli del Lautrec. I possedimenti dei Morra furono requisiti dalla Real Camera finchè il primogenito Marcantonio non riuscì a riscattarli con il pagamento di un’ammenda. A Favale era rimasto il resto della famiglia, la moglie Luisa Brancaccio e gli altri figli: oltre al già citato primogenito, Decio, Cesare, Fabio, Camillo e le due sorelle, Isabella e Porzia. Assolto «vivo o morto che fosse» nel 1533 dall’accusa di tradimento, Giovan Michele Morra preferì la condizione di “exilé italien” e almeno fino al 1549 continuava a riscuotere la pensione del Re di Francia. Isabella, che aveva studiato con il fratello Scipione, il quale, stando alle cronache di famiglia, divenne Segretario di Caterina dei Medici e, secondo la migliore tradizione degli intrighi di Corte, morì avvelenato per invidia, vagheggiava quel mondo, cui sentiva di appartenere e che le era stato precluso, invocando il ritorno del padre: «D’un alto monte onde si scorge il mare miro sovente io, tua figlia Isabella, s’alcun legno spalmato in quello appare, che di te, padre, a me doni novella». Ma il padre non fece ritorno, anzi saranno proprio i fratelli assassini, «che il luogo agreste aveva educati feroci e barbari», a riparare in Francia per sottrarsi alla cattura: Decio divenne abate di un’abbazia benedettina, Cesare sposò una nobildonna francese che portò in dote la terra di Chamoran mentre di Fabio si persero le tracce.
La giovane Isabella aveva avuto il torto di condividere le proprie passioni intellettuali con Diego Sandoval de Castro, probabilmente incontrato nel Castello di Bollita, ora detta Nova Siri, quando egli si recava in visita clandestina a sua moglie Antonia Caracciolo perché condannato in contumacia, non si sa per quale reato, dalla Gran Corte della Vicaria di Napoli. Sandoval, celebrato come nobile, ricco e bello, fu anche un poeta, pur se i perfidi accademici fiorentini legarono la sua autorevolezza più alla spada che alla penna, con la quale al massimo poteva fare «la bertuccia al Petrarca». Inevitabile, citando Croce, che «poetessa con poeta entrassero in conversazioni, confidenze e confessioni». I due, con la complicità del di lei pedagogo, iniziarono una relazione epistolare in cui Sandoval inviava lettere avvalendosi del nome della moglie. È proprio con quelle lettere «chiuse e non lette fra le mani» che Benedetto Croce immaginò l’ultimo alito di vita di Isabella.
Torbido Siri, del mio mal superbo
or ch’io sento da presso il fine amaro,
fà tu noto il mio duolo al Padre caro
se mai qui ‘l torna il suo destino acerbo.
(Rime, VIII)
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Sexum Superando - Isabella Morra, (film) regia di Marta Bifano, produzione Paul John Flint, 2005
Sito del Parco Letterario dedicato a Isabella Morra
Referenze iconografiche: Il castello di Valsinni. Immagine di Lucan56, Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International license.
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023