"Il Corano è contraddittorio, e come tale è umano. Noi musulmani non abbiamo avuto ancora la nostra riforma liberale, ma innumerevoli riforme conservatrici. Oggi riformare non significa dire alla gente come pensare, ma dare loro il permesso di pensare e di fare domande sui nostri testi sacri. E questa è considerata una sorta di eresia anche fra i musulmani non estremisti. Sono una musulmana dissidente, all’inizio del mio libro dico che sono una Muslim refusenik, ma questo non significa che io rifiuti l’Islam: rifiuto di unirmi a un esercito di automi in nome di un dio, incluso il mio".
Lo scrive, nel 2004, nelle prime pagine del suo libro My trouble with Islam, (in Italia uscito per Guanda con il titolo Quando abbiamo smesso di pensare) una giovane attivista e giornalista musulmana: il suo nome, Irshad, non a caso significa “guida”.
E nel suo sito è proprio la stessa Manji ad accettare la sfida insita nel suo nome: "Essere una guida per il popolo musulmano verso il coraggio morale e la riforma democratica" - scrive.
Il successo del libro, che immediatamente viene preso di mira dai fanatici integralisti, è planetario; nel giro di due anni non solo viene tradotto in tutto il mondo occidentale, ma anche, per specifico desiderio dell’autrice, in urdu, arabo, farsi, indonesiano, sloveno, e molti capitoli sono disponibili gratuitamente on line.
Irshad, che nel testo ringrazia Allah per la sua vita e anche per l’amore della sua compagna, è la prima donna musulmana di dichiarata fede islamica a prendere parola pubblica contro l’integralismo religioso, e lo fa in una maniera inedita e dirompente.
"Sono credente, e sono lesbica. Ma il mio dio non è quello degli integralisti, che mi vorrebbero morta perché amo una donna. Se dio non avesse voluto che io fossi come sono io non ci sarei. Dio non mi giudica per quella che sono, sono gli esseri umani a farlo".
Ishad Manji, nata proprio nell’anno simbolo dell’inizio delle rivoluzioni antisistema e antipatriarcali in occidente, irrompe a soli 35 anni sulla scena mondiale e diventa in breve un punto di riferimento per una vasta parte dell’opinione pubblica, in particolare giovanile, del mondo arabo e musulmano.
Quando Ishad compie 4 anni la famiglia, di origine indiane ed egiziane, si trasferisce in Canada per sfuggire alle persecuzioni del dittatore Idi Amin. Manji si laurea alla British Columbia, diventa consulente legislativa e collabora con i maggiori quotidiani e televisioni canadesi; dalle pagine e dagli schermi non lesina critiche sui maltrattamenti inflitti alle donne nel nome dell’Islam (compresi la copertura della testa e del corpo adottata in alcuni paesi arabi islamici e anche all’estero). Dibatte e polemizza anche sui pregiudizi arabi nei confronti di Israele, rovesciando l’ottica: non basta, sostiene, condannare la violenza fatta dai militari israeliani nei territori occupati contro i palestinesi. Critica, inoltre, la condotta dei palestinesi e le opinioni della gran parte dei musulmani su Israele.
Lei stessa, nel sito www.irshadmanji.com, racconta di avere formato la capacità di critica verso l’integralismo proprio grazie al fatto di aver frequentato per tutta l’adolescenza due tipi di scuole: quella pubblica e quella religiosa, una madrassa, nella quale ha iniziato lo studio approfondito del Corano.
Nel marzo 2006 firma, insieme ad altri intellettuali di varia estrazione culturale e politica come Salman Rushdie, Ayaan Hirsi Ali e Taslima Nasreen, il Manifesto dei dodici, dal titolo Insieme contro il nuovo totalitarismo, pubblicato per rispondere ai violentissimi attacchi alla libertà di stampa dopo la pubblicazione delle vignette su Maometto sul Jyllands-Posten in Olanda. Da quel momento il suo sito diventa il più forte agente propulsivo della ijtihad, il movimento per il pensiero indipendente del mondo musulmano, che in particolare prevede anche aiuti economici di microcredito affidati alle donne in difficoltà per il conseguimento della loro indipendenza.
È innegabile che dall’11 settembre in poi la catastrofe della guerra e l’acutizzarsi del terrorismo abbiano creato una situazione nella quale è difficile esercitare serenamente una critica all’Islam senza il rischio di essere tacciati di razzismo. Per questo l’operazione di disvelamento della Manji è feconda, richiama tutti e tutte a esercitare con il pensiero l’attività di critica, che lei istruisce triangolando femminismo, religione e politica, con una forza che molto ha a che fare con altri testi fondamentali dei femminismi quali Il demone amante di Robin Morgan, Questo sesso che non è un sesso di Luce Irigaray, il Secondo sesso della De Beauvoir, o Nato di donna di Adrenne Rich, solo per citarne alcuni.
Con una prosa incalzante, innervata da racconti e aneddoti di vita vissuta (molti racconti riguardano la sua infanzia sotto le rigide regole della religione ma anche la sua esperienza di conduttrice televisiva a Toronto, Canada, di un programma su argomenti di cultura gay e lesbica, Queer Television) il libro può diventare un efficace strumento per costruire ponti che rafforzi quel movimento di riforma politica e religiosa dentro l’Islam come già avvenne nel cattolicesimo, con la nascita della teologia della liberazione e dei movimenti cristiani di base, e che con fatica opera nella società islamica, in particolare in Iran. Ascoltiamo la Manji: "Non ho peli sulla lingua, io. Dovrete abituarvi. In questa lettera pongo domande davanti alle quali non possiamo più nasconderci. Perché siamo ostaggio di quanto accade tra israeliani e palestinesi? Come spiegare la persistente vena di antisemitismo che percorre l’Islam? Chi ci vuole veramente colonizzare: l’America o l’Arabia? Per quale ragione continuiamo a sprecare il talento e la ricchezza delle donne, che rappresentano il cinquanta per cento abbondante della creazione divina? Cosa ci rende tanto sicuri che gli omosessuali meritino il nostro ostracismo – se non addirittura la morte- quando, secondo il Corano, tutto ciò che Dio crea è 'eccellente'? Oggi, non solo a causa dell’11 settembre, ma in seguito a quell’evento con tanta più urgenza, dobbiamo porre fine al totalitarismo dell’Islam, e in particolare alle flagranti violazioni dei diritti delle donne e delle minoranze religiose. Nascondere questa realtà serve solo ad assolverci dalla responsabilità dei confronti dei nostri simili".
Questa libertà di pensiero; che le consente di criticare la religione alla quale lei stessa dice di appartenere la “trae” "In primo luogo dall’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani: chiunque ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di fede, e poi dal Corano 4,135: Fedeli, vivete secondo giustizia e siate testimoni e portatori di verità davanti a Dio, anche se questo significa andare contro voi stessi, la vostra famiglia o le regole della vostra società".
Chiedere e costruire, anche in nome della fede islamica verità, giustizia, libertà ma anche gioia, piacere ed espressione di orientamenti sessuali non certo conformi alle ferree regole del Corano: questa la sfida di Irshad Manji, che rilancia: "Favorire il cambiamento significa non prendere il Corano alle lettera, e nemmeno il multiculturalismo. Perché mai dovremmo mostrarci indulgenti nei confronti dell’infibulazione? Per quale ragione i poliziotti dovrebbero ritirarsi di fronte ad un padre (o una madre) che minacci di uccidere la figlia perché vuole sposarsi al fuori della religione? Perché mai i diritti umani dovrebbero essere appannaggio esclusivo dei non musulmani?"
Il suo ultimi libro si annuncia nuovamente un caso: Allah, liberty and love – the courage to reconcile faith and freedom.
I. Manji, Quando abbiamo smesso di pensare?, Guanda, 2004
Referenze iconografiche: Irshad Manji, 2012. Foto di Michael Bachelard. Immagine in pubblico dominio.
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023